Gramellini e il caffè amaro: indigestione di luoghi comuni
Massimo Gramellini, la poetica deamicisiana del “buon presentatore” che sognava di diventare un grande editorialista
Vorrebbe essere molto più glamour e cerca sempre la battuta ad effetto, all’Eduardo, per far “cadere il teatro” ma non ci riesce quasi mai. Parla, tantissimo, parla a vanvera si parla addosso, è sempre pronto a servire la battuta facile agli “amici ospiti, e oscilla per mascherare la timidezza da neofita del piccolo schermo che si gode l’immeritato successo.
Gramellini è l’alfiere della nuova categoria dei Grilliparlanti italici che ce la spiegano, e ce la raccontano, e vorrebbero un’Italia educata, seria, onesta, disponibile a cedere il posto in autobus, altruista, insomma una fiaba.
Già perché nelle fiabe è tutto facile, anche la cattiveria diventa argomento edulcorato, tenero, per lui compagno di scuola un po’ sfigato, ma secchione che le ragazze amano frequentare, ma fino al limite fisico del bacio, perché lui non ha tempo deve ripassare la scaletta. Figlio di un Fazio Minore, e di una seconda serata, è diventato il dispensatore di consigli non richiesti che neanche Donna Letizia, e ne ha per tutto e per tutti.
I bambini, le nonne, i geni incompresi, gli imprenditori vessati dalla mafia, da lui diventano personaggi felliniani, alla Ginger e Fred, in attesa della messa in onda che, sappiamo trasforma tutto, alleggerisce, stempera, anche la violenza tra le sue labbra diventa lieve, sopportabile, pronta ad essere perdonata.
E’ un personaggio che potrebbe essere nato dalla penna di Fogazzaro, perché non ha nulla di sovraesposto, non provoca, non urla, piace alle suocere e ai potenti perché inoffensivo più di Severgnini, soporifero e prevedibile e dunque affidabile, un mondo antico piccolo piccolo.
Rispetto agli urlatori a gettone, lui preferisce quel gruppo di incensatori delle buone e vecchie maniere, i vecchi soloni spompati, parcheggiati da millenni, col plaid sulle gambe, su raitre, ma non riusciamo a provare comprensione perché la sua paciosità accondiscendente contrasta con un mondo sfatto, strafatto, brutto e cattivo.
L’Italia dei Garrone (decidete se il regista o il protagonista di Cuore) e dei Franti non si specchia in nessuno di questi siparietti del sabato sera, uno Studio Uno contemporaneo ,dove al posto di Mina ci viene imposto lo sfigato che ce l’ha fatta e canta il rap, gadlerner, due comiche stressate, e la compagnia di giro che ha appena finito il passaggio prezzolato sulle altre reti.
Un vero strazio, sussurrato, con frasi ben articolate che alla fine non conducono da nessuna parte, una descrizione di un territorio mentale che esiste solo nella sua testa, ed è tutto uno scambio di salamelecchi e di sorrisi tirati, brutti da vedere, di autocompiacimenti all’infinito, tra famosi fumosi e sconosciuti sconvolgenti.
Tutto questo per ore e ore di trasmissione senza tregua e senza la speranza di una pausa pubblicitaria, senza un balletto che ci venga a salvare dalla noia, Gramellini liberaci dal male, spegniti.
E così sia.
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