Culture

La fine del mondo è una mostra: l'intensità del nuovo Pecci

 

Prato (askanews) - Danzare nel buio, guardandoci da quella che appare una distanza siderale. Bjork lo fa da sempre e lo continua a fare, con la stessa grazia disperata e innocente. Anche all'interno della mostra "La fine del mondo", che il direttore del Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, Fabio Cavallucci, ha scelto e curato per la riapertura del museo toscano. "Black Lake" dell'artista islandese è una delle tante opere video che sono esposte in mostra, e molte di esse rispondono con precisione all'ambizione curatoriale di Cavallucci."Saliamo in questa astronave - ci ha detto il direttore introducendo la mostra - e cosa succede, ci troviamo proiettati a qualche migliaio di anni luce di distanza, e quindi guardiamo tutto con una specie di cannocchiale che poi ci porta a vedere le cose lontane nel tempo, che affondano nella storia, ma in certi casi anche nel futuro. Ecco allora che ci sono opere che toccano il tema geologico, oppure quello del tempo, la matematica che sta dietro al concetto di tempo. Tutta una serie di opere che, dalla distanza, guardano in modo assolutamente diverso a quello che è il nostro presente".Un presente che diventa, passo dopo passo, passato quando si attraversa un'altra delle opere più intense - in una esposizione che non lesina l'intensità - il lungo e tortuoso percorso a rebours del "Transcorredor" di Henrique Oliveira, una installazione monumentale che nasce come una parete moderna e finisce in un albero vecchio come il mondo. La stessa vetustà che coglie un ufficio nella "Petrified Forest" di Jimmie Durham, catastrofica e liberatoria al tempo stesso - come ogni fine del mondo, è ovvio - oppure che si sedimenta sui cellulari cristallizzati di Thomas Hirshhorn, oggetti sospesi tra differenti ere geologiche."Le cose, in fondo, non si inventano mai - ha aggiunto Cavallucci -. Nascono da conoscenze di altre cose, da informazioni che arrivano, e si rilanciano. Diciamo che in fondo già rilanciare oggi questa iniziale aspirazione e missione del Centro credo sia importante. Ed è chiaro che oggi la rilanciamo anche in un modo diverso".Succede così che nella mostra una parte rilevante la rivesta il confronto tra l'arte e la scienza, come nei complessi calcoli matematici, che poi diventano musica, di Hanne Darboven, oppure, e qui entriamo in un altro dei gangli vitali della mostra del Centro Pecci, che la fine del mondo si soffermi a guardare la propria genesi, come avviene nella straordinaria cosmologia visuale di "Grosse Fatigue" di Camille Henrot.Il principio e l'infinito, la catalogazione e il mistero incommensurabile: l'artista francese osserva e prova a ricomporre l'infranto collettivo. Poco più in là invece è una collettività di 99 lupi di Cai Guo-Qiang a sperimentare il fallimento di ciò che, per buona parte della grande installazione, appare un sogno d'altri tempi, libero e feroce.Ma la fine del mondo, che nonostante tutte le variazioni collettive e consolatorie, in fondo resta un momento di solitudine individuale, continua a guardarci enigmatica, uno per uno. Come i volti di donne dipinti da Marlene Dumas, oppure i bambini spettrali di Tadeusz Kantor. Che comunque, nonostante tutto, sono ancora qui.