Culture

Marina Abramovic e noi, quando l'azione ribalta la prospettiva

 

Firenze (askanews) - Loro sono bambini, cantano in coro, ma a dirigerli è uno scheletro, lo stesso, ne siamo certi, con cui il corpo dell'artista si era intrecciato poco prima. Siamo dentro la mostra antologica sul lavoro di Marina Abramovic, "The Cleaner", allestita a Palazzo Strozzi a Firenze e curata dal direttore del museo, Arturo Galansino. Un'esposizione che, forse persino suo malgrado, non può essere definita altro che un evento.Per quanto molto si sia visto, e letto, e scritto sulla Abramovic, per quanto la sua lezione sia stata recepita e rinnovata da molti altri artisti, per quanto le polemiche su di lei siano venute a noia, ancora oggi fare i conti con l'intensità complessiva del suo lavoro è una sfida complessa e interessante, in molte parti dolorosa, come quando si rivedono storiche performance, per esempio quella, ipnoticamente straziante, dedicata all'ampliamento dello spazio.C'è molto corpo, in mostra, ma è un corpo che ignora la lingua della seduzione, che si trasforma realmente in quella "soma" che fa pensare ai dilemmi della filosofia, platonica o idealistica, come si preferisce. Ci sono le idee, lontane seppur splendenti, e all'opposto ci sono i corpi, spesso costretti da una violenza che è tanto manifesta come nel caso delle guerre che hanno sconvolto la Jugoslavia, quanto apparentemente nascosta, come si scopre quando i pioli delle scale che conducono alla casa dove la Abramovic ha tenuto un'altra celebre performance si svelano essere coltelli. A quel punto molte cose si ribaltano e, ancora una volta, ci rendiamo conto, a essere messa a ferro e fuoco è la nostra casa, siamo noi quelli chiamati a salire quei gradini, l'artista è solo una sorta di messaggera, il resto sta a noi, che veniamo chiamati a raggiungerla.E quindi, una volta presa questa consapevolezza, ecco che si capisce che quando si arriva nella sala che documenta la celebre performance del MoMA di New York, "The Artist is Present", è inevitabile invece che l'artista non sia presente, perché il punto chiave sono i volti di chi, anonimo o famoso, colto o digiuno d'arte, si è seduto dall'altra parte, quella veramente scomoda. E quando anche io prendo posto, fissando più la sedia vuota che le foto della Abramovic alle pareti, capisco che la principale lezione dell'artista è stata quella di obbligarci, guardando lei fare cose al limite dell'impossibile, a guardare noi stessi, come se stessimo dall'altra parte di qualcosa - un tavolino, un sipario, un vetro, quello che volete - e in questa distanza finalmente prendere consapevolezza... autoconsapevolezza. Un momento che può essere tragico e liberatorio, grottesco e magnifico, spesso tutte queste cose insieme, esattamente come accade se si guarda senza giudizi preconfezionati il lavoro di Marina Abramovic.