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Costume
Fuorisalone a Milano: tra provocazioni artistiche, selfie e duelli per magnare
Fuorisalone Design week 2019

Le ciotole del designer di Dubai davanti alla casa del Manzoni. «Oooooh, very beautiful», squittisce la designer di New York che s’avventa sull’installazione per farsi un selfie con lo stesso ardore con cui Di Maio afferrava il decreto sul reddito di cittadinanza per annunciarlo urbi et orbi su Facebook. Le finte giraffe con appesi lampadari e alberi posticci piazzate nei chiostri della Statale mandano in brodo di giuggiole la truppa delle stylist giapponesi. Ed è subito selfie.

Alla Triennale apre il Museo del design voluto da Stefano Boeri, il premier Conte è in ritardo e gli avventori cominciano a urlare «Basta, fateci entrare» neanche fossimo in curva a San Siro. Al terzo piano del civico 11 della gloriosa via Solferino c’è il «cocktail party» organizzato dall’agenzia di moda e design ungherese. La vista dal balcone merita ma di cocktail (e tantomeno di party) neanche l’ombra.

La mattina si discute di abitare e cultura architettonica, design ecosostenibile e provocazioni artistiche e il pranzo inesorabilmente salta. Al limite, c’è qualche goccio di Bellavista per inumidire le fauci intellettualmente impegnate a predicare il verbo del bello tra una presentazione di un libro e l’altra. Il round successivo è nel meriggio, e con questo sole primaverile che accalora e affatica, anche il raffinato pensiero intellettuale che prima di mezzodì sgorgava impetuoso comincia lentamente a inaridirsi. Lo stomaco langue, le gambe cominciano a cedere, la fame invece aumenta. E siamo ancora alle quattro. Ussignur. Ma è alle sei (p.m., ça va sans dire, come da indicazioni sull’invito glamour) che scatta l’ora dell’armageddon, l’apocalisse delle tartine, il giudizio finale del cous-cous.

Perché hai voglia a piazzare animali finti, triclini con cuscini giganti, giochi di luce, fioriere in mezzo alla strada, pianoforti tirati a lucido come se da un momento all’altro dovesse passare Gino Paoli a dare una strimpellata. Alla fine la domanda del popolo del Fuorisalone (si chiama così, no?), è sempre la stessa: esattamente quando e dove se magna?

Il problema è che questa fatidica domanda se la fanno in tanti (troppi) e tutti alla medesima ora e tutti negli stessi posti, che sia il cortile fiorito di Brera che l’hangar di via Tortona che la fabbrica dismessa di biciclette dalle parti di via Padova, magnificata dal solito aspirante designer che viene qui una volta l’anno e squittisce: «Ma questa è la Brooklyn di Milano!». Seeeeee….

Coloro che la mattina discettavano amabilmente di art design e magnificavano Gio Ponti, titillavano l’ultima lampada che s’accende con un touch o s’avvinghiavano al pesce gigante piazzato accanto a Sant’Ambrogio con aria quasi ascetica, subiscono una trasformazione da far impallidire la buonanima di Darwin e tutte le sue teorie sull’evoluzionismo.

È sufficiente che sul tavolino (di design, ovviamente) si materializzino due-olive-due e subito scatta il duello rusticano. Sguardi ferini, mani che roteano vorticose, le borse in ecopelle o juta («sono per salvare il pianeta, eh») che scivolano come le armature dei crociati dopo la conquista del Santo Sepolcro e, oplà, la battaglia comincia. La free lance anglo-turca, dimentica della dotta dissertazione mattutina sulla cucina come luogo di pacificazione per potersi nutrire lentamente e unirsi al respiro dell’armonia universale, con una mossa degna del manuale di Sun Tzu sbarra la strada al designer canadese vestito come Sbirulino e agguanta famelica le due olivette. Non è finita, anzi siamo solo agli inizi. Perché stanno arrivando i tarallini al finocchio e non vuoi mantenere la posizione come i soldati in trincea sul Carso durante la Grande Guerra? Resistere, resistere, resistere. Anche perché la voce che finalmente c’è qualcosa da mangiare si è sparsa in un men che non si dica e gli avventori del Fuorisalone hanno le pupille fuori dalle orbite come neanche gli affamatissimi protagonisti della rivolta del pane del 1628 che assaltavano i forni, con Manzoni che osservava e prendeva appunti dalla finestra di casa sua (e chissà cosa avrebbe scritto oggi). Ora il gioco si fa veramente duro. Il cameriere in livrea (di design, ovviamente) tira fuori dal frigo un paio di bottiglie di prosecco e gli astanti le guardano rapiti come i veggenti scrutano il rotear del sole a Medjugorje. Il complemento d’arredo magnificato fino a due minuti prima con un coro di «oh, amazing, very innovative» è stato impietosamente travolto dalle fameliche truppe. Il design val
bene un prosecco.

Non c’è rito più democratico di quello che si celebra, ogni anno, attorno agli striminziti appetizers del Fuorisalone. L’intellò e il giornalista scafato, lo studente d’Ingegneria che scruta il piattino per calcolare quante pizzette ci stanno e il designer arrivato da Oslo, il dopolavorista appena uscito dalla banca con la ventiquattr’ore e il liceale che «sono qui perché a me mi piace l’atmosfera» fino alla carampana fresca di permanente le cui labbra siliconate sono già un’installazione ambulante per non parlare degli zigomi che se li denunciasse al catasto dovrebbe pagarci l’Imu. Li guardi, e pensi che se i cinesi hanno inventato il bastone per i selfie questi aspiranti Gio Ponti potrebbero ben inventare anche la canna da pesca per i buffet. Ecco, il prossimo anno, al Museo del Design vogliamo vedere qualcosa di veramente utile: l’asta da buffet. Intanto, buon prosecchimento a tutti.

Prosit!

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