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Talk show, interruzioni e l'ira di Feltri: in Italia non sappiamo dibattere

Qualche giorno fa, intervistato sulla “7” da Telese e Parenzo, Vittorio Feltri, s’è arrabbiato, perché lo interrompevano mentre rispondeva alle domande che gli avevano posto ed ha avvertito che, se Parenzo avesse perseverato, se ne sarebbe andato. Parenzo ha perseverato e lui se n’è andato. Stessa scena, condita di insulti (cafoni e asini) si è ora verificata in Rai. Vittorio Feltri ha indubbiamente posto all’attenzione di tutti un problema di notevole importanza: come si conduce un dibattito? È lecito interrompere?

Che il dibattito sia utile è indubbio. Chi parla senza contraddittorio (come pretendono e ottengono di fare i rappresentanti del M5S) sembra che abbia sempre ragione. Gli ascoltatori infatti non sono forniti né di sufficiente senso critico, né di autonomi dati, per giudicare la sua tesi. È questa la ragione per la quale già i romani imponevano il principio: “audiatur et altera pars”, si ascolti anche la controparte. Un minimo di verità si ottiene soltanto contrapponendo, a chi sostiene una tesi, qualcuno in grado di sostenere la tesi opposta. Solo in questo modo sono sventati gli inganni più plateali e i terzi si possono formare un giudizio autonomo.  

Feltri video

Ovviamente, i protagonisti devono essere posti sullo stesso piano, disporre dello stesso tempo e dello stesso rispetto. In una parola, devono essere messi in condizione di parità e non bisognerebbe permettere a nessuno di sabotare il dibattito con urla, interruzioni che impediscono agli altri di parlare, insulti ed altri comportamenti inammissibili. Purtroppo, tutte le soluzioni per ottenere una civile conversazione hanno delle controindicazioni.

Se assegniamo a ciascuno cinque minuti per ogni tornata di interventi, c’è caso che gli ascoltatori si addormentino. Cinque minuti, in televisione, sono un’eternità, e non tutti sono brillanti espositori. D’altra parte, se si assegna un tempo troppo breve, non si ha più il modo di esporre un concetto che richiede un minimo di elaborazione. Saremmo ai tweet.

Si potrebbero allora assegnare a ciascuno quindici minuti complessivamente, utilizzabili con interventi anche di lunghezza variabile, purché il totale sia sempre quindici. Ma noi italiani siamo un popolo di poeti e gli spettatori sono infastiditi da questo genere di regole. “Vogliamo rifare Tribuna Politica?” E in realtà sono contenti se colui che sostiene la loro tesi grida più di tutti, e si mostra molto indignato e molto sicuro di sé. Come sono loro. In fondo, per noi, il casino ha un suo fascino.

Poi c’è il problema di frenare chi “sfora”. Per evitare di dover zittire chi parla oltre il tempo concesso, in certe Corti americane si usa un piccolo semaforo, posto dinanzi all’oratore. Verde, parla pure. Rosso che lampeggia concludi, rosso fisso chiudi subito o ti togliamo il microfono.

Ma noi italiani siamo un popolo di umanisti che sdegnano la tecnologia e la disciplina prussiana. Dunque il modello attualmente in vigore è il seguente: 1) parla di più il più maleducato e il più invadente; 2) chiunque abbia la parola smette di parlare soltanto se il conduttore, più o meno cortesemente, gliela toglie; 3) tutti hanno diritto di interrompere, e non se ne privano certo.  Tanto che spesso gli intervenuti parlano tutti insieme e non si capisce una parola. 4) Il conduttore considera di avere diritto alla sua opinione, e dunque interloquisce a volte impedendo agli altri di completare una frase o un concetto. 5) Infine il conduttore, quando interrompe qualcuno per passare la parola ad un altro, lo fa quando gli conviene, quando glielo consiglia l’orologio, o quando ne ha abbastanza. Comunque senza tenere conto del punto dell’esposizione cui è arrivato il malcapitato, che a volte implora: “Mi lasci finire la frase”.

Vittorio Feltri, protestando, ha fatto bene? Sì e no. In un mondo civile, avrebbe certamente avuto ragione. Interrompere è da maleducati. Ma in un mondo civile nessuno tende a non far parlare nessun altro. Dunque, intervenendo in un dibattito in Italia che cosa crede di fare, Feltri, raddrizzare le gambe ai cani? Forse dovrebbe dire prima: “Mi dovete dire quanti minuti mi date, e mi dovete assicurare che nessuno mi interromperà durante quei minuti”. Ma le televisioni italiane accetterebbero un simile patto? La richiesta di ordine e di buona educazione fa rischiare l’accusa di fascismo.

E allora? chiederà qualcuno. Allora nessuno ci obbliga ad assistere a questo genere di show. Personalmente, se dovessi scegliere un sistema – non essendo un poeta, un umanista e forse nemmeno un italiano – opterei per l’assegnazione di un tempo, per un contaminuti a scalare invisibile per gli spettatori e per il sistema del semaforo. Questo darebbe maggiori possibilità a chi è sintetico, chi ha le battute fulminanti, chi sa essere chiaro con poche parole. E lo spettacolo ne guadagnerebbe. Dimenticavo: l’interruzione, se brevissima, sarebbe ammessa, ma a chi la attua va sottratto il triplo del tempo. Se ha fatto un’interruzione di trenta secondi, gli viene conteggiati un minuto e mezzo. Finito il tempo, si disattiva il microfono.

Sono sicuro che per molti questo sistema è prosaico, meccanico, umiliante. Meglio il cortile: tanto spontaneo, sincero, naturale. Tanto italiano.

giannipardo@libero.it

Tags:
vittorio feltriluca telesedavid parenzodibattitotalk show





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