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Cronache
Aemilia, motivazioni Cassazione. ‘Ndrangheta con politici e economia locale
 

Essere bravi a nascondere non presuppone il riuscirci per sempre.

A chi conosce le mafie emiliane le motivazioni della Cassazione sul processo Aemilia, al clan Grande Aracri della ‘ndrangheta, suonano più o meno così.

Dire, come hanno fatto per 40 anni le istituzioni locali, che loro sono “diverse” perché figlie delle lotte dei partigiani è servito solo a coprire con una patina di nuova omertà le varie organizzazioni presenti sul territorio da almeno gli anni ‘70-’80.

La Corte di Cassazione ha depositato i motivi della sentenza che nell'ottobre scorso sanciva le 40 condanne definitive arrivate con rito abbreviato al processo Aemilia (quando con il rito ordinario in primo grado sono stati impartiti 1200 anni di pena a 125 imputati). 

“Il guadagno delle somme provento dell'attività delittuosa della cosca cutrese”, (Grande Aracri è di Cutro, ndr) non tornavano in Calabria, scrive la Corte ma venivano “investite nelle attività economiche gestite o controllate dalla locale emiliana”. 

Sarebbe bastato 10 o 20 anni fa andare a Brescello, il paesino di Peppone e don Camillo (di Guareschi) per vedere questo clan insediato. O chiedere alla consigliera comunale Catia Silva, lei che li denunciava in quasi totale solitudine, senza guru o associazioni di furbi a farle da grancassa.

 

E il clan Grande Aracri era una cosca che aveva superato le barriere classiche, taglieggiare gli imprenditori emigrati. Andava a braccetto con gli industriali emiliani e tesseva relazioni con politici e istituzioni, fino al mondo del giornalismo, come con il popolare conduttore locale Marco Gibertini, condannato nel processo e a disposizione del clan.

“Un'opera di tessitura di rapporti con esponenti delle istituzioni locali”, scrivono i giudici “sì da consentire, dietro la cortina di un riconoscimento sociale degli adepti, alla cosca di implementare il proprio potere, aggiudicandosi, ad esempio, gli appalti pubblici più prestigiosi e remunerativi, di incrementare i propri profitti e di utilizzare attività economiche apparentemente lecite per reimpiegare i proventi delle proprie azioni criminali e di quelle della cosca madre, posto che la forza di intimidazione che caratterizza l'organizzazione descritta nell'art. 416-bis cod. pen. si riconnette anche ad un sodalizio che adopera la stessa senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quei modi espressivi, per certi aspetti ancora più temibili, che derivano dal: 'non detto, dall'accennato, dal sussurrato, dall'evocazione di una potenza criminale cui è impossibile resistere', grazie ai collegamenti con la casa madre e con altre strutture operative periferiche e, altresì, alla diffusa conoscenza delle sue notorie pregresse attività criminose: di modo che, in presenza di una simile caratterizzazione delinquenziale, non era possibile dubitare della capacità intimidatrice e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà promanante dalla locale emiliana della ‘ndrina di Cutro”.

 

Di recente, il vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, ha detto che l’Emilia ha perso la verginità con l’inchiesta Aemilia. “La consapevolezza dell’innocenza perduta”, ha spiegato Zuppi in un convegno all’auditorium Unipol di via Larga, “deve farci rendere conto della sfida che abbiamo davanti. Il male peggiore è quello che non si vede, quello che ci rende assuefatti e ci omologa”.

Aprendo un pochettino gli occhietti lo si poteva vedere già negli anni ‘70. Come hanno fatto alcuni ridotti al silenzio.

Bisogna sempre ricordare che essere bravi a nascondere non presuppone il riuscirci per sempre.

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