A- A+
Cronache
Quando l'ordine pubblico è un alibi. Il filosofo Verdiglione si difende
Toga al palazzo di giustizia

“La caccia e il pericolo.  Ovvero la busta di Licurgo e la società perfetta”. Di Armando Verdiglione

Nel 1797, Ferrara si trovava in un certo scenario politico, insieme con Parma e Modena, e Giuseppe Compagnoni stava, per l’occasione, a Ferrara. Scrive un libro: Elementi di diritto costituzionale democratico. La casa editrice Spirali l’ha pubblicato nel novembre del 2008, nella collana chiamata “Questioni aperte con i classici”, con prefazione e cura di Italo Mereu.

Questo libro risente dell’epoca in cui è scritto e dell’entusiasmo per chi si trovava in una repubblica e non più in una tirannide. Ha anche un’oscillazione fra le istanze del diritto romano e forse del rinascimento e le istanze proprie dell’epoca e, cioè, con il riferimento al Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau. Enuncia, in modo semplice, questioni serie e non esita a porre obiezioni a Cesare Beccaria in merito alla pena, alla pena chiamata “pena di morte”. Ma qualsiasi pena, ogni pena, è pena di morte, è la morte come pena. La morte come vendetta, la morte come colpa, la morte come pena. Ogni pena. La repubblica, per Giuseppe Compagnoni, non ha bisogno della pena di morte. Anche su altro scrive qualcosa che ha ancora oggi interesse. Rispetto all’ideologia della Costituzione, in parte, Giuseppe Compagnoni partecipa, si collega e, in parte, se ne scosta. A noi interessa per la parte in cui si scosta dall’ideologia della Costituzione. Diremo tra poco qual è l’ideologia della costituzione.

Riprenderemo, poi, lo iato fra Giuseppe Compagnoni e Jean-Jacques Rousseau. Ma, ora, in questo esordio, leggiamo una nota – perché a volte ciò che sta a piè di pagina assume più rilievo di ciò che scrive nella pagina: “Ma chi non vede che tutti i governi sostenuti fin qui non erano in fondo che una cospirazione dei forti contro i deboli e dei ricchi contro i poveri? I despoti e i tiranni, di loro natura, sono paurosi e i paurosi sono crudeli”. Tra poco, diremo qualcosa intorno a chi è il pauroso per definizione, a Atene e a Gerusalemme. Non è così chiaro a Roma.

 Il fondamento del probabile, tra l’informativa, la requisitoria e la replica, va dal noto ragioniere – noto per gli inquisitori – al computer. Nella replica, ormai, non era più questione del ragioniere, era questione soltanto del computer. Nelle arringhe, sono state rivolte obiezioni intorno a questo presunto fondamento: perciò la replica si è fissata su ciò che il Pubblico ministero riteneva l’ultima roccaforte del probabile e, cioè, sul computer, dove stavano i “documenti fiscali”, ma nella loro forma rarefatta, cioè nello schema della fattura, non già negli allegati, non già nelle descrizioni, non già nel contesto, non già nel testo, non già nell’effettività degli scambi, dei servizi, della cessione di opere, dei lavori di restauro. La sentenza, invece, insiste sul computer. Ma prova a recuperare, dalle informative della Guardia di finanza e dalla documentazione presentata dal Pubblico ministero in aula e allegata alle informative, tutto ciò che possa ancora dare ragione e conto di questo fondamento, riposto ancora, in qualche modo come garante, nel ragioniere. C’è un computer, ma c’è un garante che il computer effettivamente contiene, va interpretato, va commentato, va letto in questo modo: è il ragioniere. Nel computer del ragioniere, dunque, c’è un documento che sta a casa sua: non è chiaro in quale data fosse stato scritto, a chi si rivolgesse, chi l’abbia scritto e che attinenza abbia, effettiva, con l’amministrazione e con la contabilità. Ma viene dato come “decisivo”. Assurge a dimostrazione del nulla. Poi, viene trovato un altro documento. Quindi, anche tutto ciò che non è entrato in aula, tutto ciò che non è entrato nel dibattimento viene riprodotto nella sentenza.

Questo altro documento è relativo a corsi del Fondo Sociale Europeo. Nessuno lo ha mai visto. Nessuno lo ha mai letto. Stava a casa del ragioniere. Sarebbe stato un suo studio della legge, della normativa e del modo suo, che aveva pensato, per rispettarla, aggirarla, un modo contorto? Noi avevamo esperti, consulenti, professori, commercialisti, a Milano, in grado di dare suggerimenti e avevamo anche, come consulenti legittimati, i funzionari della Regione stessa, dove noi andavamo a chiedere delucidazioni e istruzioni sulla procedura. Oltre al fatto che la legge stava scritta e poteva essere capita, anche senza avvalersi di consulenti e di tecnici della Regione. Questo documento, che non è firmato, ma è indirizzato a me, senza data e senza mittente – non è una busta, è un dattiloscritto –, viene subito assunto. Il ragioniere viene ricreato dalle tre donne giudicanti addirittura come un superesperto che redige un suo modo di interpretare – lui che viene dalla provincia, che non ha esperienza di corsi e di pratiche con la Regione –, d’interpretare a suo modo la legge comunitaria, la legge europea sui corsi.

Abbiamo fatto una verifica se questo “documento” – se questo, che esse chiamano documento, che è documento per loro, ma è un pezzo di carta, un pezzo di carta anonimo, senza data – potesse avere attinenza con la nostra pratica relativa ai corsi. I corsi si sono tenuti, sono stati seguiti, gli allievi si sono formati, e ciascuno di loro ha trovato lavoro. I docenti c’erano. Tutto è avvenuto con una regolarità assoluta e la Regione aveva, comunque, il controllo dei corsi. Ma le tre donne giudicanti ignorano la legge regionale. E assumono il ragioniere come loro superconsulente. Credono alla sua interpretazione. La legge regionale prevede che il volontariato non ci sia: cioè, se un ente tiene corsi con una partecipazione volontaria dei docenti, questo aspetto non può essere pagato. I corsi si sono tenuti. Dice la sentenza (p. 97) che “mancavano i presupposti fattuali, normativamente previsti, per accedere ai finanziamenti pubblici indicati, che non erano semplicemente l’effettivo svolgimento di corsi e seminari”. Come non importano le opere d’arte, la cessione delle opere d’arte, i lavori della Villa, i servizi, non importano neanche i corsi. Il fatto che i corsi si siano tenuti, che gli allievi abbiano tratto vantaggio, che si siano formati, che i corsi fossero di qualità: abbiamo fatto venire esperti, professori, Emilio Fontela, Giorgio Antonucci, Thomas Szasz, vari scienziati da tutto il mondo. Non importano i corsi, importa che, secondo questo documento del noto ragioniere, ciascun intervento era volontario. Ma, qui, nulla era volontario! Tutti erano registrati, tutto era pagato, anche con la ritenuta d’acconto, con la dichiarazione dei redditi. Abbiamo trovato tutti questi documenti.

L’analisi dell’impalcatura ideologica di questa sentenza sembra già compiuta in altri nostri scritti, molto precedenti a questi otto anni, di diversi periodi. Se noi andiamo a leggere, tanti libri che noi abbiamo pubblicato sembrano all’insegna dell’analisi persino dell’impalcatura ideologica che sta alla base di questa sentenza.

Ci troviamo nella parte finale della sentenza, quella che riguarda gli enti citati ex articolo 231/2001: Villa San Carlo Borromeo srl e Frua De Angeli Holding spa. Nel processo, ma anche nelle cinque informative principali, quelle dal 14 gennaio 2010 in poi, e anche nelle precedenti, non ci sono elementi che indichino un vantaggio – dato il postulato, nella sua assurdità – per le persone e per le società. Ma è molto semplice: se la stessa sentenza riconosce, e l’abbiamo verificato e letto, come, del resto, la Guardia di finanza, come l’Agenzia delle Entrate (questo sta alla base, loro lo riconoscono, della trattativa della conciliazione con l’Agenzia delle Entrate) che non c’è danno per l’erario, allora non c’è vantaggio né per le persone né per le società. Posto che i giudici non tengono conto dell’esperienza, dell’impresa, delle attività, dei servizi, di ciò che avviene nell’“infragruppo” – e hanno torto, in base alla legge europea recepita dall’Italia e anche in base alle acquisizioni più recenti, messe in rilievo, oggi, da Paolo Duranti – posto questo, non c’è, comunque, danno per l’erario e non c’è, quindi, vantaggio per le società, né per le persone.

 

Gli altri due temi sono il contributo del Ministero dei beni culturali e i finanziamenti da parte delle banche. Il contributo del Ministero è stato dato per la struttura che stava crollando, che sarebbe crollata, nel gennaio 1985, con la grande nevicata, come sono crollate altre ville, e che è stata portata a uno splendore che non aveva mai avuto, perché la cura è stata nei dettagli, con la tecnologia, con precisione e strumenti che una volta non c’erano. Quindi, è una restituzione in qualità, anziché una restitutio in pristinum. E, qui, il contributo ministeriale avviene sulla base della constatazione, da parte dei tecnici e dei funzionari del Ministero, di un lavoro che è stato compiuto. E basta. Contributo parziale, parzialissimo. Non sono stati gonfiati i lavori! I lavori stavano lì, e sono stati valutati secondo i parametri del Ministero. Qual è il vantaggio per le persone nel fatto che viene dato un contributo parziale per il restauro della Villa San Carlo Borromeo? È un vantaggio per il monumento, è un vantaggio per la collettività. Sono il monumento e la collettività a avere tratto vantaggio. Il Ministero ha soltanto elogiato il lavoro compiuto. Funzionari, soprintendenti, direttore generale, vicedirettore generale, viceministro, ministro hanno elogiato il restauro. Hanno anche detto che è un esempio rarissimo, c’è stato chi ha detto che non c’è un esempio come quello e che nessuno, se non per ragioni culturali e artistiche, ha profuso tante risorse, tante forze, tanto impegno, tanta cura per il restauro di un monumento. Basta confrontare con i restauri pubblici, con la Villa Reale di Monza. Fiumi di denaro sono stati impiegati, per quale risultato? Che a ogni tempesta leggiamo sul giornale che c’è stato un allagamento? Ci sono tanti esempi, in Italia, di monumenti pubblici, ma non ci sono esempi di monumenti privati che abbiano ricevuto tanta cura. Allora, dove sta il vantaggio per le persone? A meno di dire, dinanzi a un’opera di restauro che diventa un’opera d’arte e d’invenzione, che è una soddisfazione che quest’opera sia riuscita. Questo è un vantaggio? Sì. Un vantaggio intellettuale. Senza nulla d’illecito.

E così per quanto attiene alle banche. Le banche hanno valutato con le loro perizie, affidate a periti propri o a enti esterni, e sulla base di un “valore di realizzo”: nel caso di messa all’asta, hanno valutato quanto potevano rischiare e, su questa base, se quel mutuo potevano darlo. Poi, è chiaro che, se si restaura un monumento, un monumento importante che diventa produttivo, esso aumenta di valore. È aumentato di valore con la crisi del 2007-2008. Aumenta di valore oggi. Una massa liquida enorme, a livello mondiale, giunge dalle banche centrali, dalla Banca centrale cinese, da quella europea, da quella americana. E dove viene canalizzata? Nelle imprese? No, in questo momento, non c’è la fiducia. Nell’oro? Può essere una cosa problematica perché da un momento all’altro lo scenario può cambiare e l’oro non è un bene produttivo. E allora, dove? Nell’arte e nei monumenti di prestigio, che siano strumentali. Questo sta avvenendo, oggi! La valutazione compiuta un anno fa, oggi, non è appropriata. Il complesso monumentale può avere un altro valore, nonostante il fallimento, nonostante che la Villa San Carlo Borromeo sia stata abbandonata dal 26 giugno 2015. Questo è l’interesse enorme, oggi, intorno a questo bene dell’umanità. E anche per Villa Rasini Medolago. Perché per le due ville e il parco che sta in mezzo si manifesta un interesse industriale e finanziario internazionale: un parco di quasi ottanta ettari, che è nel progetto, e due ville collegate tra loro, con servizi alle aziende, alle multinazionali, quindi alle forze produttive internazionali e intersettoriali, che vedono Milano protagonista nei prossimi anni. Questo, oggi, ha un altro valore.

Ma da dove viene che tutto ciò che riesce diventa un disvalore e deve essere colpito con la pena? Lo narriamo ora.

Le società, dunque, sarebbero imputabili e condannabili in relazione ai reati commessi “nelle persone di Verdiglione Armando e Frua De Angeli Cristina”. Il “duo”. Queste due persone hanno commesso questi reati. “Persone fisiche”, (quelle che scrivono sono persone psichiche) “che hanno commesso reati nell’interesse e a vantaggio finale delle due società citate”. Quindi, non per il loro vantaggio, ma a vantaggio delle due società.

Dinanzi a questo, tre grandi formule categoriche, caricaturalmente apodittiche: “è stata certamente raggiunta la prova di sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dei reati”. È stata raggiunta la prova dei reati “di cui all’articolo 416”, associazione per delinquere. È stata certamente raggiunta la prova? In tutta la sentenza, qui siamo alla conclusione, non c’è l’ombra della prova, l’indizio della prova, la sentinella della prova, il sentore “dei reati di cui all’art. 416 c. p. contestati al Verdiglione e a Frua De Angeli”. La prova dei reati contestati. “È altrettanto indubbio”, “è stata certamente raggiunta”: la formula categorica si appesantisce con la caricatura dell’anafora. “È stata certamente raggiunta la prova”. “È altrettanto indubbio”, indubbio! Ma qui il dubbio è tolto. La questione è chiusa. Per principio. “È altrettanto indubbio che Verdiglione e Frua De Angeli rivestissero ruoli apicali”. Grande raffinatezza linguistica! L’apice, lo zenit: la cima, la sommità, il vertice è assumibile da un soggetto, da uno statuto professionale e confessionale, da un ruolo: “ruolo apicale di amministrazione, di gestione delle società in esame, non solo per le cariche formali dagli stessi rivestite”. Quindi: è indubbio che erano amministratori. E che cosa facevano, questi amministratori? Restauravano la Villa San Carlo Borromeo, facevano pubblicità, dirigevano l’ufficio stampa, facevano venire da tutto il mondo ospiti e clienti (multinazionali, compagnie di assicurazione, di telecomunicazione, aziende automobilistiche, banche, aziende di moda). Di questa Villa parlavano, in tutto il mondo, i clienti e gli ospiti. “Rivestivano ruoli apicali, di direzione, di amministrazione, non solo per le cariche formali dagli stessi rivestite ma anche perché ne detenevano, pure indirettamente, tramite diversi soggetti giuridici...” – la Fondazione – “ne detenevano le quote azionarie”.

Il 99,5 % delle quote di ciascuna di queste due società è della Fondazione, che è “persona giuridica” riconosciuta dallo stato, con i controlli da parte del Ministero e, oggi, della Prefettura, dove non ci sono né possessori né padroni né eredi – non ci sono eredi! –, dove non ci sono quote. Queste due persone non possedevano e non possiedono la Fondazione. Non l’hanno mai posseduta. Io non l’avrei neanche fatta! Chi va a costituire una fondazione, riconosciuta dallo stato come “persona giuridica”, per utilizzarla – in Italia! – come suo strumento per esercitare il potere, anziché intervenire direttamente nelle società? Forse, queste donne rispettabili sono abituate a trovarsi dinanzi alle fondazioni nel Liechtenstein, alle isole Cayman, alle isole Vergini o in altre isole, dove stanno fondazioni di altro genere. Fare una “Fondazione Armando Verdiglione” per mascherare Verdiglione! Io voglio mascherare, e la chiamo “Fondazione Armando Verdiglione”! Per mascherare, per non far capire che è lui! Una cosa geniale, furbissima!

“Ne detenevano, pure indirettamente, tramite diversi soggetti giuridici le quote e le azioni…”. Questa è una falsità. È stata dichiarata “falsità” dal Tribunale del riesame, che ha rigettato, ha annullato il sequestro nel giugno del 2011. Con questa tesi il Pubblico ministero aveva ottenuto il sequestro; con l’osservazione del Tribunale del riesame che quella tesi era assolutamente insostenibile è stato ordinato il dissequestro. le due ville non sono mai state nella disponibilità di Armando Verdiglione e di Cristina Frua De Angeli. “… e di fatto assumevano le decisioni strategiche e operative che li riguardavano, oltre a esercitarne i controlli”. Ma perché, le società decidono da sole? Queste società è come se fossero delle donne, le tre donne giudicanti le trattano come se fossero donne, che non decidono, non operano, non controllano; sono queste due persone che decidono, operano e controllano. E, magari, tante altre.

“… è stata raggiunta la prova e la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’articolo 416 del codice di procedura penale. È altrettanto indubbio che Verdiglione e la Frua De Angeli”, qui non sanno: l’articolo, a volte lo adoperano, a volte no. Prima era: “Nelle persone di Verdiglione Armando e Frua De Angeli Cristina”, persone fisiche. Poi dicono: “contestate al Verdiglione e alla Frua De Angeli”. E poi: “È altrettanto indubbio che il Verdiglione e la Frua De Angeli rivestissero ruoli apicali.” “È ugualmente evidente”, quindi, “è stata certamente raggiunta la prova”, “è altrettanto indubbio”, “è ugualmente evidente”, “come le condotte poste in essere dal Verdiglione e dalla Frua fossero in definitiva funzionali al conseguimento di vantaggi e interessi economici a favore delle due società citate e rinviate a giudizio ex articolo 231/2001”. E, qui, le falsità sono, assolutamente, in netto contrasto con le informative della Guardia di finanza e, sopra tutto, con il processo. E con la realtà imprenditoriale intellettuale.

“Quanto alla Villa San Carlo Borromeo, avverrebbero nella stessa le condotte truffaldine di cui all’articolo 1”, cioè rispetto agli enti pubblici, “beneficiando di ingenti finanziamenti pubblici”. E, qui, in tribunale noi siamo stati imputati soltanto per quanto riguarda il Ministero, non per quanto riguarda la Regione Lombardia. È una cosa molto controversa, perché vaga, nell’esposizione fatta dalla Guardia di finanza, e non è stata sostenuta dal Pubblico ministero né portata come imputazione in tribunale.

La tre donne giudicanti vedono tutto gonfio e gonfiano tutto. Quindi, “beneficiando di ingenti finanziamenti pubblici”, cioè il finanziamento cui fanno riferimento di 2.635.371,34 euro è irrisorio rispetto al finanziamento necessario per il restauro che è stato attuato. Dove notiamo, ancora una volta, che i valori effettivi dei lavori vanno ben oltre i valori delle fatture. Chi restaura un monumento con quella cura, con quella attenzione, con quella profusione di forze, proprie e di molti esponenti, anche, del Movimento cifrematico internazionale, e di molti amici, e di restauratori, può rendersi conto di questo. “Quanto sia alla Villa San Carlo Borromeo sia alla Frua De Angeli, le attività poste in essere per l’associazione per delinquere erano dirette, da un lato a ottenere consistenti…”, ecco anche qui “consistenti”, “finanziamenti bancari, di cui entrambi hanno usufruito, dall’altra ricorrendo alla falsa fatturazione, ad abbattere ogni forma di debito erariale”. Questo è assurdo. Non c’è stato nessun “abbattimento” di debito erariale. Quello che ha calcolato la Guardia di finanza per quanto riguarda l’Iva, tenendo conto soltanto delle fatture emesse e non delle fatture ricevute, soltanto dei ricavi e non dei costi, non riguarda un debito Iva, non riguarda un danno all’erario. Non può essere calcolato come debito Iva, nel postulato di fatture inesistenti, ma solo come una sanzione! E anche come sanzione è insostenibile, assurda! E noi l’abbiamo analizzato, anche rispetto a sentenze, molto precise, di Cassazione. “Per incrementare artificiosamente… la consistenza del capitale sociale”. Il valore del capitale sociale è di gran lunga inferiore al valore dei beni. E nell’operazione di fusione c’è un parziale adeguamento fra il valore del capitale e il valore dei beni. E il valore dei beni cresce in riferimento alla loro produttività aziendale.

Poi, ancora: le tre donne giudicanti fanno come se si trattasse di una società quotata in borsa o di un gruppo di società, tutte quotate in borsa, le quali hanno un obbligo, di cui dice la sentenza: “Tantomeno, nel caso in esame, gli enti giuridici in questione hanno fornito la prova liberatoria dell’assunzione, ed effettiva adozione, di modelli organizzativi adeguati a prevenire i reati in discussione, né dell’esistenza di un organismo autonomo di vigilanza e controllo”, come una banca, che ha un organismo di controllo e un organismo di vigilanza, “che avesse efficacemente esercitato i suoi compiti, né della fraudolenta elusione dei modelli di organizzazione da parte degli autori dei reati presupposti”. Ci sarebbero modelli di organizzazione, per le società, che non sono stati seguiti. Modelli di denuncia degli illeciti, quali la vendita di opere d’arte a una società, i servizi intellettuali, il restauro della Villa? In realtà, le società erano sottoposte a vari controlli: collegio sindacale, tre società di revisione (Ernst & Young, BDO, Moore Stephens).

Tutto ciò poggia sul postulato del reato associativo.

Leggiamo l’informativa che ha portato alla richiesta di sequestro delle due ville, già in gennaio 2010. In quell’occasione, la richiesta fu respinta dal Gip. In aprile 2011, la richiesta è stata rivolta a chi non poteva negare il sequestro. La Procura ha scelto di andare sul sicuro? O è capitata sul sicuro? Nell’informativa del 14 gennaio 2010, la Guardia di finanza non è sicura del reato associativo. E nemmeno dopo, nelle informative successive. Pertanto, sottoponendo alla Procura tutto ciò che ha raccolto, dichiara: “si presume”, “si ritiene”, “appare”, “ci sembra”, “queste circostanze ci fanno pensare”. Tutte queste probabilità o tutta questa materia, che non è materia intellettuale ma materia probabile, senza prove, che mai avrà prove, la sottopone alla Signoria Vostra, cioè al Pubblico ministero. “La Signoria Vostra è pregata di valutare l’eventuale sussistenza del vincolo associativo relativo all’articolo 416 bis relativamente a Verdiglione Armando”, questo “bis”, nel testo, è una cosa che è sfuggita, perché, dappertutto, costoro dicono 416, “relativamente al Verdiglione Armando, alla Borraccino Mariella, all’Amati Maria Grazia, alla Costa Elisabetta, al Rozza Gianluca, alla Persico Stefania, alla Vazzoler Carla e agli altri soggetti che la Signoria Vostra riterrà responsabili delle condotte ritenute penalmente rilevanti nei confronti degli istituti di credito”. Però, non è menzionata Fabiola Giancotti, non è menzionata Cristina Frua De Angeli. “La Signoria Vostra è pregata altresì di valutare la posizione ai fini delle rispettive responsabilità penali del rappresentante legale delle varie società emittenti fatture per operazioni inesistenti, tenuto conto che a carico delle medesime si configura, a parere dei militari, quantomeno un concorso”. E, poi, esamina le varie posizioni, dove non postula l’associazione a delinquere, per nessuno, ma il concorso. L’associazione a delinquere è un reato, il reato più grave, un reato a sé stante. Come tale, a prescindere dai reati-fine, va punito. Ma, nell’esame delle varie posizioni, nell’informativa del 14 gennaio 2010, non viene menzionato il reato associativo ma soltanto il concorso. Non c’è associazione a delinquere: ha commesso reato chi ha concorso, e ha una pena rispetto a quel reato, ma non rispetto all’associazione per delinquere. Il Pubblico ministero, poi, ha esteso il reato associativo a tutti quei casi per i quali la Guardia di finanza aveva postulato il concorso nel reato e non il reato associativo. “Si può configurare un reato, quantomeno un concorso con il Verdiglione Armando indiscusso dominus e amministratore di fatto di tutti i soggetti economici rientranti nella sua orbita d’affari”. Poi aggiungono: “Si ritiene che la Frua De Angeli concorra con il coniuge Verdiglione quantomeno in qualità di firmataria dei documenti ufficiali della società di cui è rappresentante legale”, quindi, non viene menzionata lì, viene menzionata dopo, “(bilanci di esercizio, dichiarazioni dei redditi e Iva) che vengono presentati a istituti di credito ed ai preposti soggetti pubblici”. “Si ritiene”, così. “Concorre”. “Concorso”. “Si ritiene” che l’accusato concorra: quindi, è un concorso, non un reato associativo. “In ogni caso”, la Guardia di finanza conclude così, “dalle attività di intercettazione telefonica è emersa la posizione sfumata della Frua relativamente all’attività amministrativa e burocratica di contatto con banche ed enti pubblici (ad esclusivo appannaggio del Verdiglione e dei suoi stretti collaboratori), limitandosi la stessa pressoché esclusivamente ad attività intellettuali, scrittura di libri, articoli, pubbliche relazioni con la stampa per la promozione della Villa San Carlo Borromeo”. Questo è ciò che la Guardia di finanza ha portato alla Procura e in tribunale. I marescialli, in tribunale, non hanno mai rivolto nessuna accusa, non hanno mai mai menzionato Cristina Frua De Angeli, né sono emersi elementi durante il dibattimento, a meno di citare François Keller, quando dice che, per quanto riguarda il restauro della Villa, un coordinamento era assicurato da Cristina Frua De Angeli, ma questo lo riconoscono anche i marescialli. Allora, che cosa è intervenuto di nuovo, per la condanna a sette anni? Di nuovo, nel processo, è avvenuto l’intervento di Cristina Frua De Angeli il 19 maggio 2015. Ha preparato sessanta pagine, ne ha esposte sei o sette e, poi, ha avuto un “attacco ischemico” con “amnesia globale transitoria”, chiedeva dove fosse: “Cosa è successo?”. E, poi, non ha potuto proseguire. Infatti, le tre donne giudici annotano che ha interrotto, “per un malore”. Il verbale reca questa annotazione. È questo il fatto nuovo, determinante? Non lo dicono. Dicono soltanto che è “moglie” e che Verdiglione si consulta con lei, quindi che è interlocutrice di una scommessa. La incontriamo e diviene statuto intellettuale e interlocutrice di una scommessa nel dispositivo cifrematico.

L’impalcatura di questa sentenza sembra ben analizzata anche in una conferenza molto articolata, quasi fosse il compendio di un libro che sta nell’Affaire fiscale, conferenza del 3 gennaio 2009: chi è il più pauroso? Nel Prometeo incatenato – che noi abbiamo pubblicato non a caso, con una cura speciale: la nostra edizione (1988) indica la portata di questo libro nei vari secoli, fino a oggi – Efesto dice: Zeus non tollera la novità. Poi, interviene Kratos: “Nessuno è libero, tranne Zeus”. Ma quale libertà ha Zeus, qual è la libertà di Zeus? Che cosa porta Prometeo, secondo Platone? “La scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena” (Protagora, 321 d.). Inventa le ragazze d’oro, Efesto, inventa tutto ciò che serve alla vita nell’Olimpo, lo inventa attraverso due interventi: grazie a lui nascono gli umani e grazie a lui, per suo intervento diretto, nascono gli ateniesi. Com’è noto, Zeus dà in dono a Efesto Afrodite e, a Epimeteo, dà in dono Pandora.

La macchina e la tecnica, l’invenzione e l’arte, Zeus le accoglie nell’Olimpo e è Efesto a introdurle, ma non le tollera sulla terra, nel mondo. Non tollera la gloria mundi. Zeus esercita il dominium mundi e non tollera la gloria mundi. Zeus è invidioso. Zeus ha paura: per ciò, punisce ogni gloria nel mondo. Da qui, la distinzione, nella mitologia greca, ripresa da Platone con il suo sogno e da Aristotele, il sogno che sulla terra ci siano tutti i beni e non ci siano i mali, quindi che ci sia l’assenza di lavoro. È l’utopia. È Prometeo che porta i beni: questo sogno di Prometeo diventa il sogno di Aristotele. Ma Zeus non tollera. E non tollera nemmeno questa distinzione fra l’arte liberale e l’arte meccanica, fra nobiltà e viltà. Zeus ama il capovolgimento: che la nobiltà divenga viltà.

Questa è la mitologia ripresa come idealità dall’ontologia, da Aristotele, e ripresa, in pieno, da San Paolo. Qui, non stiamo leggendo Esiodo, non stiamo leggendo Omero: leggiamo san Paolo, Lettera ai Corinzi, I, 1, 27-29: “Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono”. Ridurre a nulla le cose che sono: quindi, la sapienza, la forza, la nobiltà, ridotte a nulla, perché nessun uomo – non è Omero, questo, non è Esiodo, non è Eschilo, non è Aristotele, è san Paolo! – “perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”. La tragedia greca (viene chiamata così) è tessuta attorno alla ϕϑόνος ϑεω̑ν, all’invidia degli dei, ma principalmente di Dio. Lo zelo di Dio, di Zeus. Qual è lo zelo? Invidia, gelosia. Da una parte la ϕϑόνος ϑεω̑ν, quindi di Zeus, e dall’altra la ὕβρις, l’audacia, che viene chiamata umana: l’audacia e il rischio. Zeus, Dio, non ama l’audacia, non ama il rischio. Leggete il capitolo che si trova alle pagine 81-88 dell’Affaire fiscale: è l’analisi dell’impalcatura della sentenza, per intero. Ancora non c’era la sentenza, ma l’impalcatura c’era, dal primo giorno. C’era nell’atteggiamento, nelle frasi che dicevano o non dicevano i marescialli. Dalla prima visita, dalla reticenza, dalla riserva mentale.

Così Zeus punisce Prometeo. Come lo punisce? Non lo punisce direttamente, ma con le Arpie, le “cagne alate”, e con l’aquila, anch’essa cagna alata. Zeus è contro la tecnica e la macchina degli umani, contro l’arte e la cultura, contro il processo di valorizzazione della memoria. E così questa figura di Amentes degli egizi, l’orco, λαμβάνων χαΐ διδούς, colui che prende la vita e colui che dà la morte. Attenzione! La buona morte, la morte salvatrice. Questa è la sola speranza che sia tollerata. Non già la fede che procede dalla speranza, ma la speranza che procede dalla fede, che è la speranza dominatrice, quella che sta alla base del dominium mundi. Questa è la speranza di Zeus e questa è la speranza nella mitologia della donna triforme, della dea triforme.

La caccia alla testa, al cervello, alla strega, all’intellettuale, al dispositivo intellettuale, alla parola. Ma anche la caccia alla metafora, alla retorica, quindi la caccia alla struttura, alla struttura originaria, all’industria, ovvero alla tecnica e alla macchina. Viene ammessa la struttura, quindi anche la tecnica e la macchina, purché funzionali alla pedagogia che è militare. E così la caccia alla retorica, alla libertà del mercato, alla libertà dello scambio, alla libertà della parola. La caccia al cristiano, all’ebreo, al cattolico, la caccia alla funzione di zero, che è la caccia della caccia. La funzione di caccia è la funzione di zero, la caccia della caccia tramuta lo zero nella “carogna” o nella “cagna alata”.

I “cacciatori di teste”, la “testa” come fallo e quindi fondamento dell’ordinalità, del sistema ordinale, del sistema politico sociale, la “testa cacciata”, il “trofeo”. I “cacciatori di testa”. Il cacciatore di testa, padre morto. Ogni idealità, ogni idealizzazione, parte da questo. Così i concetti di universo e di sfera, che ricorrono nella sentenza, sono quei concetti che si vanificano, si dissipano nei diari di Cristoforo Colombo.

Zeus pauroso, Zeus vendicativo o Dio vendicativo. Questa la conoscenza. Questa la glasnost. Da Lenin a Gorbaciov, dalla trasparenza procede la luminosità. Dal sostanzialismo procede il mentalismo. Il sostanzialismo sorge sull’abolizione del due, della relazione. La glasnost, la gnosi, la conoscenza, l’intolleranza verso l’audacia e verso il rischio. Il privilegio, invece, della messa a nudo, dell’“apocalisse”. La glasnost: qualsiasi regime, lo stalinismo, il nazismo, Togliatti e molti ideologi dell’organizzazione delle istituzioni e delle aziende s’ispirano alla stessa gnosi.

Un pericolo si prospetta per l’istituto della vendetta, per la tanatologia, ed è il pericolo che fonda l’erotismo, il “pericolo di sé” è il “pericolo dell’Altro”, la pericolosità di sé, la pericolosità dell’Altro. Il sé è pericoloso e va abolito, l’Altro è pericoloso e va espunto. Vanno tolti l’autismo e l’automatismo, la cosa, la parola, la cosa intellettuale.

I concetti di “spazio” e di “tempo”, quelli di Kant, presiedono al pericolo di sé o dell’Altro che viene chiamato pericolo di morte e richiede una negativa dell’oggetto e della causa, una negativa del tempo e dell’Altro. È la gnosi, la gnosi di sé o la gnosi della crisi, la gnosi del giudizio. Ma l’Altro è pericoloso soltanto togliendo la madre. Soltanto togliendo la madre, l’Altro è la morte, e quindi il pericolo dell’Altro è il pericolo di morte. La materia intellettuale è pericolosa, la realtà intellettuale è pericolosa, la tecnica e la macchina sono pericolose. L’unico modo per risolvere questo pericolo è la soluzione salvifica, è la salvezza attraverso la morte.

È pericolosa la follia, è pericoloso lo stile, pericolosa l’industria, pericolose l’arte e l’invenzione, pericolosa la scrittura, pericolosa la casa editrice, pericoloso il numero, quello secondo cui procedono l’arte e l’invenzione, anche per Efesto.

Questo concetto di pericolosità sta alla base del diritto penale, sta alla base dell’apparato medico-legale, sta alla base della psicoterapia, della psicologia, della sociologia, dell’antropologia. Questo concetto di pericolosità è demonologico. Il marchio della legge del 1904 per il “malato mentale”, marchio d’ispirazione illuminista, era il ricovero coatto perché pericoloso per sé e per gli altri.

L’audacia è pericolosa, va sostituita con la paura. Il rischio è pericoloso, va sostituito con la soluzione. L’immunità, l’immunitas, è del rischio. Il pericolo giallo non è pericolo di morte, è il pericolo della Pentecoste, è il pericolo dell’intendimento, è il pericolo della differenza e della varietà incolmabili, sessuali. Il pericolo giallo è il pericolo della comunicazione nella sua lontananza, della telecomunicazione. Il pericolo giallo è il pericolo della riuscita. La riuscita non è tollerata. Ciò che è tollerato è il soggetto alla morte, definito nell’ontologia dal discorso. Il pericolo blu è il pericolo clinico.

La cittadinanza è pericolosa, il pubblico è pericoloso, lo era già il coro. L’infinito e l’eternità del tempo sono pericolosi. La libertà della parola è pericolosa. Così la libertà dell’impresa, la libertà di associazione, la libertà di ricerca sono pericolose. Questa pericolosità diventa il limite della libertà d’impresa di Zeus, della libertà di Dio, della libertà dell’istituto della vendetta.

E allora niente pubblico, niente infinito attuale. Meglio l’ad infinitum, che è più adatto al soggetto alla morte.

La libertà non è la libertà di morire, è la libertà della vita. Chi fa ciò che vuole, cioè Zeus, è libero di morire, ma non è libero.

Siamo qui dunque attorno alla volontà, questa volontà di bene che deve annientare ciò che è pericoloso, che viene quindi convertito in male. Per ciò senza l’oggetto assoluto, la causa assoluta, e senza l’automa, senza il tempo.

Ognuno deve stare nella sua busta. Ognuno appartiene all’insieme come tale. Ognuno deve seguire il sistema. “Ognuno” non è “ciascuno”. Ciascuno, come statuto intellettuale, procede dall’apertura intellettuale, dal due, dalla relazione. Ognuno procede dal principio della moratoria, senza la sovranità che è del due, nel suo principio, da cui procedono le cose per integrazione, da cui procedono anche l’arte e la cultura, la tecnica e la macchina.

Licurgo. La sua formula. La sua busta. Assegnata a ognuno. Democrazia diretta.

È affascinato da Licurgo anche Giuseppe Compagnoni. E lo chiama “metodo di Licurgo”. La formula per ognuno. Per ogni famiglia, per ognuno della famiglia, la formula viene data chiusa, viene aperta, viene richiusa, viene tenuta. Ognuno, con questa formula, interrogato correttamente, risponderà correttamente.

Scrive Giuseppe Compagnoni, che in questo caso è nel suo candore partecipato con Jean-Jacques Rousseau: “Il metodo di Licurgo potrebbe facilmente applicarsi a qualunque numerosa nazione. Venga proposta una formula ai cittadini; e gl’ispettori d’ogni comune la consegnino a ogni famiglia da aprire, approvare o rigettare entro tale spazio breve di tempo. Quindi la ricevano chiusa di nuovo, come supponiamo che sia consegnata chiusa”. Per Licurgo, però, la formula non era da non accettare: perché veniva formulata così bene che veniva accettata. Questa busta, questa formula diventa la nobile menzogna di Platone. Ognuno, interrogato correttamente, risponde correttamente, quindi l’automaticismo. “Vedremo, nel corso di quest’opera, che il Corpo legislativo non fa che esplorare la volontà generale e fissarne la formula”.

La volontà generale è la volontà del popolo, cioè di ognuno, di ogni soggetto alla morte, di ognuno che vuole la salvezza togliendo la pericolosità.

La interpreta bene la busta di Licurgo, lo scrittore Salvatore Niffoi, che ha scritto Il bastone dei miracoli (Milano, 2010). E Licurgo Caminera è il suo personaggio.

Licurgo Caminera ha dodici figli, ognuno con un nome della mitologia greca. Ne aveva dodici, adesso sono solo sei, e sta morendo. Vuole vederli tutti insieme e così lascia a ognuno una busta chiusa, dove sta un racconto. In ogni busta sta una parte del racconto. Chi apre la busta da solo non ha il racconto. Allora devono riunirsi e aprire ognuno la sua busta. Ognuno ha una parte del racconto, questo racconto, questa storia, è la storia del bastone dei miracoli. Il bastone ha un regalo speciale. Chi tiene il bastone, chi tiene lo scettro ha la buona morte.

La gloria mundi non è tollerata, la verità e il riso non sono tollerati. È tollerato lo scettro, il bastone dell’eutanasia.

Busta: ciò che è bruciato, incenerito. Quindi sepulcra. L’incenerimento tramuta il dentro-fuori in un sacco, in un sacco (la busta) algebrico e geometrico. Il contenente è “fuori” e il “contenuto” è dentro. La busta chiusa. Creando la coda, la busta si chiude. Annullamento, incenerimento, quindi la chiusura della busta. Attraverso il segno uguale. Ed è il segno uguale che attraversa l’intera legislazione di Licurgo. La pianificazione, il sistema. È lui che inventa il Parlamento e il Senato, e inventa l’educazione militare. È lui che s’ispira a Zeus. È lui che è andato in giro nei vari regni della terra, dall’Egitto alla Persia, per otto anni. E poi è tornato, chiamato dagli spartani. Creando la coda, la busta si chiude: è questo il sistema politico-sociale, l’apparato medico-legale. Quindi la società che è tollerata è la società che si fonda sull’idealità. La società perfetta. La salute perfetta, la società perfetta. La società ideale. L’utopia.

Nelle sue Lezioni sulla figura del dotto (1794), Johann Gottlieb Fichte scorge il fine ultimo di ogni comunità nella “società perfetta”, un insieme di esseri ragionevoli e liberi, e considera lo stato come semplice mezzo in funzione della società perfetta, finalizzato al “proprio annientamento, in quanto lo scopo di ogni governo è di rendere superfluo il governo” (Lezione seconda).

Karl Popper si oppone alla “società perfetta”, ma abbiamo detto pure quali sono gl’inconvenienti e le questioni aperte in merito a quella che Popper chiama “la società aperta”, nel noto libro La società aperta e i suoi nemici (1945).

La società perfetta. Lo psichismo perfetto. E qui: Marx, Engels, Lenin, Hitler. La società perfetta è la società che può gestire la pericolosità.

Il concetto di reato è il concetto di fatto che definisca il delitto, cioè la violazione di una legge costituita. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, nel diritto anglosassone, non c’è il reato associativo.

Quando viene coniato il reato associativo? In quale codice? Noi possiamo leggere Il martello delle streghe e il diritto canonico, però il primo codice in cui viene sancito il reato associativo è il codice napoleonico, però come “associazione di malfattori”, non come associazione a delinquere. È un reato per il “banditismo”, per la “banda armata”, per la banda di coloro che assaltano i viaggiatori per rapinarli e, quindi, vanno contro l’ordine pubblico.

Nella sentenza, le associazioni, le società sono indicate come un “primo livello”, segue il postulato del “secondo livello”, che, come abbiamo visto, nella formulazione della Guardia di finanza, riguarderebbe sei persone. Poi viene esteso a molte altre. E questo “secondo livello” tocca l’associazione nel suo statuto, l’associazione come condizione del dispositivo di parola, tocca il dispositivo di parola.

Giuseppe Compagnoni parte da qualcosa che viene dato come acquisito ancora oggi, sulla scia di Jean-Jacques Rousseau. Cioè che ci sia un diritto di natura e poi un diritto civile e altri diritti.

Il diritto di natura, per Rousseau, si riferiva al “buon selvaggio”. E, nell’ideologia, ancora si distingue tra ciò che è necessario e ciò che è superfluo. Cioè il presupposto è il naturalismo.

Il diritto di natura poggia su istinto, desiderio e bisogno. Ma istinto, desiderio e bisogno non hanno nulla di naturale e sono indicativi, l’istinto, del paradosso dell’equivoco, il desiderio, del paradosso della menzogna dell’uno diviso da se stesso, paradosso della differenza frastica, e il bisogno è indicativo del malinteso. L’istinto è sintattico, il desiderio è frastico, il bisogno è pragmatico.

Dal bisogno, che non ha nulla di naturale, nascono il diritto e la ragione, per via di catacresi. Per ciò: diritto industriale, pragmatico, e ragione industriale, pragmatica. Per ciò: bisogno industriale, bisogno del superfluo. L’istinto punta alla soddisfazione sintattica, il desiderio punta alla soddisfazione frastica, il bisogno punta alla soddisfazione pragmatica.

Il bisogno esige il malinteso. E allora la madre non può essere tolta. Il mito della madre è il mito dell’industria, il mito del tempo. E se la madre non può essere tolta, l’Altro non è la morte. Nessuna funzione di morte. Ma la funzione è singolare triale, senza più sistema.

Nella sentenza, spesso ricorrono la “spiegazione”, il “contributo causale”. Ma il causalismo è senza la causa, il determinismo è senza il tempo.

La teoria della società, oggi, quindi dell’istituzione delle aziende, è riuscita a fare a meno del causalismo e del determinismo?

Questa è una sentenza in nome del popolo. È in nome del popolo che viene stabilito il reato associativo. È in nome del popolo che viene stabilita la pericolosità. Il reato associativo e il reato politico sono della stessa natura: sono definiti dalla pericolosità. E sono concetti che possono essere stabiliti come reati a prescindere dai reati-fine. Quindi hanno un carattere di indeterminatezza, di vaghezza. Non hanno carattere di tassatività e determinatezza, che sono i caratteri che stanno alla base della definizione di reato, perché riguarderebbero l’accordo.

Tutto questo avviene in nome del popolo sovrano. Il concetto di sovranità viene dal concetto di popolo, senza il pubblico, senza la cittadinanza. È forgiato sul concetto di volontà generale, che abbiamo notato come può essere costituita. Alla base ci sono l’idea di origine e l’idea di casta. La busta: ognuno, con la sua busta, appartiene a un insieme. Quindi è in base al principio del terzo escluso che interviene la formula “in nome di”, in nome dell’essere, in nome del nome, in nome del popolo.

Per Jean-Jacques Rousseau, la sovranità è “un corpus morale e collettivo costituito dall’insieme dei cittadini che formano la volontà generale”. Ma dove ognuno abbia la sua busta. Come per Platone. Questo è il concetto naturalistico di sovranità. E il nazionalismo è l’altra faccia del naturalismo.

Queste cose sembrano lontane dal processo ma sono i significanti che ricorrono nel processo stesso. E la sentenza incomincia così: “In nome del popolo italiano”.

La sovranità è proprietà del due nel suo principio inviolabile e originario. Non ha torto Giuseppe Compagnoni a dire che il diritto e la ragione sono inalienabili, inviolabili, ma senza il principio del terzo escluso, senza il principio della memoria selettiva, senza la collezione circolare e la rivoluzione circolare. La rivoluzione circolare è algebrica, la collezione circolare è geometrica. Noi abbiamo colto un altro rivoluzionario e un altro collezionista rispetto a questo.

In deroga alla sovranità, il principio del due viene idealmente rappresentato dal principio della moratoria. Ma tutto questo è esattamente la speranza di Zeus, la speranza nell’avvenire, cioè il taglio che intervenga nel due, nella relazione. E così s’instaura la dicotomia sociale e politica. Che è propria del sistema sociale e politico. Il taglio del due. È il canone dell’uniforme, il canone dell’androgino, il canone dell’homo mortalis/immortalis.

Cioè il reato associativo rientra nella presunzione del contratto sociale. Se non c’è questa ideologia del contratto sociale, non c’è il reato associativo.

L’associazione è pericolosa per che cosa? La libertà di parola è pericolosa per che cosa? Per il contratto sociale! Quindi il reato associativo, che è un reato politico, è in deroga al principio della non punibilità del mero accordo.

Questo principio sta alla base del diritto anglosassone.

Le formule dell’“ordine pubblico”, della “pace pubblica”, della “pubblica tranquillità” sono formule del contratto sociale.

Oggi il nuovo codice penale francese ripropone l’“associazione dei malfattori” come quella che riguarda “crimini e delitti contro la nazione, lo stato e la pace pubblica”.

È il codice toscano a introdurre, in differenza dal codice napoleonico, l’associazione a delinquere, che viene estesa ad altre cose, non al banditismo, non alla banda armata, non al terrorismo. Oggi il nuovo codice francese riguarda anche il terrorismo.

L’atto di preparazione non è punibile. Allora viene dato come punibile il principio di esecuzione. Questa è la soglia.

Nella sentenza è intervenuta la questione della complessità. Non a caso. La teoria della complessità è stata introdotta negli ultimi quarant’anni, in particolare negli anni ottanta.

Vari autori, vari avvocati, hanno scritto intorno alla complessità, sì, ma questa complessità sta nella “dottrina dei sistemi”. Sempre rispetto al contratto sociale questa “teoria della complessità” diventa “teoria dell’organizzazione”. E l’organizzazione si colloca dentro il sistema. E così la partecipazione viene chiamata “relazione funzionale stabile”. Ma la relazione non è funzionale, la relazione non è funzione. Così l’associazione, l’associarsi, viene dedotta dai reati. Cioè il fatto è il reato, ma qui il reato non è il fatto ma è l’associarsi.

Anche attraverso questa presunta “relazione funzionale” ricorrono i concetti di probabilità, possibilità e verosimiglianza. Questi autori parlano di funzionalismo anziché di causalismo della vecchia impostazione. Ma è lo stesso naturalismo. È lo stesso riferimento al contratto sociale. Sopra tutto, anche rispetto alla “teoria della complessità”, rispetto alla “teoria dell’organizzazione”, bisogna sempre tener conto del “sistema e dell’ambiente”. Il funzionalismo e l’ambientalismo diventano parenti. L’ambiente si rapporta al sistema.

Il reato associativo viene valutato in base al principio della sostenibilità, che è una variante del principio finalistico. Cioè la “complessità” deve rientrare nel sistema con un funzionamento circolare.

Nella sentenza, c’è uno strascico di questa ideologia che idealmente si è raffinata. Non è più meramente causalistica come poteva essere prima. E quindi può fare nobili riferimenti a Bertrand Russell, a Niklas Luhmann, a vari teorici della complessità degli anni settanta, ottanta, all’epoca postmoderna. Quindi, s’inscrive come ideologia postmoderna. Cioè sempre più non c’è nessun modo per definire “in maniera determinata e tassativa” il reato associativo, perché non è più definibile la “soglia”.

Qui il reato associativo è la parola. Il primo articolo pubblicato, nella rivista “Spirali” (1985), per il primo processo, s’intitolava: La parola non è un reato. Perché è questa la questione: in che modo la parola diventa un reato.

La “soglia” del reato associativo, oggi più che mai, è affidata alla valutazione, alla discrezionalità, alle ragioni di opportunità, di campagna, di emergenza e di esemplarità spettacolare e propagandistica. Il reato associativo viene stabilito nel tribunale in una logica emergenziale.

Nel nostro caso, l’associazione, le società, le attività non possono in nessun modo rientrare in un reato associativo. Non è chiaro quale ordine pubblico, quale pace pubblica, quale pubblica tranquillità turberebbero, o abbiano turbato.

 

Tags:
armando verdiglioneparolareato associativo
Iscriviti al nostro canale WhatsApp





in evidenza
Belen e Cecilia Rodriguez spericolate in tv: "Noi due in fuga su Fiat Panda con una suora che..."

L'intervista di Affaritaliani.it

Belen e Cecilia Rodriguez spericolate in tv: "Noi due in fuga su Fiat Panda con una suora che..."


in vetrina
Giorgia Meloni come Marilyn Monroe: ecco "Pop Giorgia", il murales a Milano

Giorgia Meloni come Marilyn Monroe: ecco "Pop Giorgia", il murales a Milano





motori
Kia EV9 Vince il Red Dot ‘Best of the Best’ 2024

Kia EV9 Vince il Red Dot ‘Best of the Best’ 2024

Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Angelo Maria Perrino - Reg. Trib. di Milano n° 210 dell'11 aprile 1996 - P.I. 11321290154

© 1996 - 2021 Uomini & Affari S.r.l. Tutti i diritti sono riservati

Per la tua pubblicità sul sito: Clicca qui

Contatti

Cookie Policy Privacy Policy

Cambia il consenso

Affaritaliani, prima di pubblicare foto, video o testi da internet, compie tutte le opportune verifiche al fine di accertarne il libero regime di circolazione e non violare i diritti di autore o altri diritti esclusivi di terzi. Per segnalare alla redazione eventuali errori nell'uso del materiale riservato, scriveteci a segnalafoto@affaritaliani.it: provvederemo prontamente alla rimozione del materiale lesivo di diritti di terzi.