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Cronache
Forteto, "Mi dissero: chi tocca muore". Parla con Affari il consigliere Mugnai
Stefano Mugnai

«Occupandosi di questa storia arriva un momento in cui bisogna mettere da parte i colori politici per cercare di arrivare fino in fondo». E’ un’analisi dura, umana ancora prima che politica, quella di Stefano Mugnai, consigliere regionale della Toscana (Forza Italia), presidente della prima commissione d’inchiesta sull’orrore del Forteto (2012-2013) e membro della seconda (2015-2016), i cui lavori sono terminati appena un mese fa. Da sempre in prima linea contro la setta fondata da Rodolfo Fiesoli, quattro anni fa ricevette l’avvertimento di un collega: «Stai attento, chi tocca il Forteto muore». Non per questo si è arreso, e dalle difficoltà iniziali – quando in pochi volevano sapere, e credere – si è arrivati a pesanti condanne giudiziarie e alla denuncia di gravi responsabilità istituzionali. Alla consapevolezza che il Forteto ha avuto un’anima sola: senza discontinuità tra la cooperativa (con un fatturato di 15/18 milioni di euro) e la comunità. Eppure oggi, che in tanti hanno saputo, non tutti vogliono credere.

La sentenza in appello ha confermato l’impianto accusatorio. La seconda inchiesta regionale ha messo a nudo un blackout istituzionale durato oltre 30 anni. Come si spiega la posizione oltranzista del Pd, regionale e locale, che parla di «disattenzioni», negando l’esistenza di un sistema collaudato?

«E’ una posizione sbagliata. I fatti hanno ampiamente stabilito qual è la verità. Parliamo di una storia di drammatici abusi: e quello che è accaduto al Forteto non è andato avanti per qualche mese, ma per oltre 30 anni. Questo proprio perché c’era tutta una serie di amicizie, di particolari attenzioni. C’era un complessivo pregiudizio favorevole che ha permesso di ignorare una sentenza passata in giudicata nell’85 e di non tener conto di una condanna della Corte europea nel 2000. Oggi, molti di quelli che difendono il Forteto, spesso anche per ragioni anagrafiche, non possono aver avuto rapporti con quella realtà. E questo, se vogliamo, è ancora più grave: perché la relazione da noi scritta non può cambiare, né la denuncia che contiene, quindi si fa polemica ben sapendo di combattere una battaglia persa. Mi spaventa che, pur sapendolo, molti colleghi (anche capaci e intraprendenti) facciano questa scelta. Il Forteto è ancora così forte da influenzare la politica? Addirittura è stato screditato Paolo Bambagioni (Pd), presidente della commissione, scelto dal partito stesso e poi colpevolizzato per aver messo la firma sulla relazione finale. Di fatto, in Toscana c’è stata un’egemonia culturale della sinistra (dal Pci al Pd) e il Forteto era considerato una sorta di “Chiesa rossa”. Bisogna prendere atto che a mandare i bambini lì dentro, a subire violenze sessuali, erano le stesse istituzioni. Questo è clamoroso: ma risponde al vero».

Si prevede un accesso dibattitto anche sulla Cooperativa e l’ipotesi commissariamento, avversato dal Pd e dal mondo delle Coop. E’ stato di recente emesso un nuovo organigramma dal Cda aziendale: e non è cambiato nulla. Dentro sono rimasti condannati, prescritti e soggetti che in Tribunale avrebbero dichiarato il falso. E’ possibile quindi parlare di due anime del Forteto o siamo di fronte ad un’ unica Setta?

«Questo è l’altro punto su cui insiste il Pd: non vogliono commissariare. Io, però, sono convinto che il futuro economico di quel marchio (di portata internazionale) sia garantito solo da un taglio netto col passato. Malgrado alcune novità, rimangono in posizioni apicali, al vertice, soggetti legatissimi alla setta. Il commissariamento è fondamentale. Misura che non significa licenziamento in blocco dei 130 occupati: chi fa passare questo messaggio fa terrorismo psicologico. Alla Coop il Forteto non può essere applicato un regolare criterio. Perché all’interno non c’era discrezionalità, non c’era libertà, né tanto meno autonomia. Sindacati, Coop e sinistra Toscana, però, negli anni hanno eretto un muro difensivo. Ora, qualcuno si è reso conto, ha fatto marcia indietro. Altri invece no. Addirittura sono state chieste le scuse per lo storico ex-presidente, Stefano Pezzati (in parte prescritto e in parte assolto, Ndr), la cui gestione è uno dei motivi per cui la Coop è stata condannata in solido a risarcire le vittime per 850mila euro. Su questa vicenda in tanti dovrebbero pentirsi, perché per interesse si sono avvicinati, dando autorevolezza alla creatura di Fiesoli, nonostante già all’inizio ci fossero ovvi motivi per dubitarne. Ma nelle audizioni tenute dai noi consiglieri, nessuno lo ha fatto. Uno dei pochi è stato il presidente della Regione, Enrico Rossi».

Del resto, se i prodotti del Forteto valgono milioni e rappresentano un’ eccellenza in Italia e all’estero, in buona parte è dovuto al regime lavorativo imposto: evasione fiscale, zero tutele per i soci, una progressiva crescita economica assicurata anche dalla notorietà di cui la comunità si fregiava.

«Assolutamente, è indiscutibile. C’era una forza lavoro che non riceveva stipendio, si sfruttavano i lavoratori (in più di un caso minorenni, Ndr) 365 giorni l’anno senza soste. Certo, adesso la Coop è una realtà affermata ed è giusto tutelare chi non c’entra nulla con l’accaduto ma ha un lavoro. Però bisogna conoscere la storia prima di prendere posizione. L’associazione (dal 2005), come entità giuridica, così come la fondazione (dal 1998), sono state istituite molto dopo la nascita del Forteto negli anni ‘70: prima c’era solo la Coop, nessuna divisione. Il Forteto era uno: e prosperava. Perché i sindacati e chi doveva vigilare non hanno rivelato per tempo tutte le irregolarità?»

Il Forteto era una zona franca.

«Fuori da ogni regola. Viveva grazie ad un cortocircuito professionale paradossale. In commissione, di quelli che hanno accettato il nostro invito, abbiamo ricevuto giudici del Tribunale dei minori, assistenti sociali, operatori dei servizi socio-sanitari, politici locali e oltre, che magari avevano chiuso la campagna elettorale passando proprio in Mugello. Tutti non ricordano, non hanno mai saputo o si giustificano dicendo di essere intervenuti nei limiti del loro lavoro. Fermandosi alle proprie responsabilità, e non oltre. Il Forteto faceva parte del Pantheon di quella che era la narrazione della sinistra regionale. Era un vanto per la Toscana che conta. A tutto questo va aggiunta l’abilità di Rodolfo Fiesoli nel saper tessere relazioni, per poi sfruttarle. Comunque, resta inaccettabile che, col passare degli anni, nessuno abbia sollevato dubbi e criticità».

E’ possibile sperare in una nazionalizzazione del caso? La propaggini del Forteto arrivano, senza dubbio, molto in alto. Basti pensare a Bruno Vespa che riceve pressioni – non si sa da chi – per non parlarne a Porta a Porta («come mai mi è capitato in 30 anni di carriera», ha detto). 

«In primis, credo sia essenziale il ruolo della stampa e dei media. Oggi, in Toscana, se ne parla: ma si è fatta una grande fatica, prima c’era un clima diverso, non c’erano né la consapevolezza né la volontà giusta per raccontare questa vicenda. Non capisco perché a livello nazionale non ci sia la stessa volontà. Anzi, forse, me lo spiego fin troppo bene. Certo, il caso Forteto è molto complesso, vanno studiate le carte, i documenti, è necessario un grande lavoro. Ma proprio con l’informazione lo scenario cambierebbe. Detto ciò, io credo nella buona fede delle persone. Diversi parlamentari del Pd hanno promesso di occuparsene. Nel 2015 tutte le opposizioni chiesero di farlo e il Pd fece muro. Magari si decise senza sapere, ma ritengo sia necessario – come abbiamo fatto noi consiglieri delegati all’indagine – spogliarsi delle casacche politiche e agire in un’unica direzione».

Può considerarsi una delle più gravi storie della Repubblica italiana?

«Sì. Perché vede coinvolte le istituzioni su più livelli. Era lo Stato che mandava là dentro dei bambini fragili, deboli, già vessati da difficili situazioni familiari; dove poi venivano abusati. La sanità, la cultura, la magistratura, la politica (anche le opposizioni, certo): tutti hanno sbagliato col Forteto. Tutti hanno enormi responsabilità. Era un sistema chiuso: più volte scoperto e mai bloccato. Si prendevano ragazzi in affidamento, reiterato all’infinito come fosse un’adozione, facendo leva sull’incapacità dei genitori di opporsi (genitori spesso tossicodipendenti, o indigenti). A volte l’affido era indirizzato alla stessa Cooperativa, perché la Comunità non era nemmeno accreditata. Insomma, si mettevano innocenti nelle mani di persone già condannate per reati contro minori, e nella deferenza generale – tutti si fidavano – non si faceva nulla». Questi ragazzi dovrebbero essere dichiarati vittime di Stato».

Si farà mai giustizia?

«In pratica, no. Molti dei reati commessi sono caduti in prescrizione. Però, a me, personalmente, non interessa tanto l’anno in più o in meno inflitto in un'aula giudiziaria a Fiesoli e agli altri imputati. Io credo l’obiettivo debba essere quello di far conoscere a un numero sempre maggiore di italiani cosa sia successo nel Mugello. Far conoscere una verità scomoda e terrificante. Perché il rischio che possa riaccadere – con modalità e circostanze diverse - esiste, e l’antidoto migliore, contro un’eventualità del genere, è la piena consapevolezza dei fatti».

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