Hammamet il film su Craxi. Favino immenso ma pellicola debole, riuscita a metà
Grazie al film di Amelio si parla di nuovo di Craxi. Un grande rimosso italiano. Il Paese dovrebbe ringraziarlo anche se Hammamet ci riesce solo in parte.
“Solo una cosa mi ripugnerebbe: essere riabilitato da coloro che mi uccideranno”, ha scritto su un foglietto Bettino Craxi prima di morire. Craxi il duro, l’arrogante visionario, condannato dal pool di Mani pulite per le tangenti, odiato come pochi (era il nemico di sempre del partito comunista italiano e della sua nomenclatura di intellettuali), ma anche amato per la testardaggine, il decisionismo e per un’idea di Paese nello scacchiere internazionale che oggi solo sognamo.
Hammamet, il film di Gianni Amelio nei cinema dal 9 gennaio, è la storia di un vecchio leone ammalato che il potere, di cui ha fatto parte, e le sue segrete armi hanno piegato nell’oblio. Non accettando abiure, il leone dovrebbe arrendersi ma non lo fa. Lo vediamo così muoversi tra i paesaggi tunisini circondato quasi unicamente dall’affetto dei cari a rimuginare su ciò che è stato e che doveva essere, tra torture mediatiche che affiorano nei sogni e una patria che resta un miraggio.
Un make-up eccezionale di Andrea Leanza e Federica Castelli esaltano un Pierfrancesco Favino in stato di grazia che quasi da solo tiene in piedi una sceneggiatura troppo intimista per un uomo che respirava politica anche dormendo. Il film fatto anche di dialoghi profondi paga di sicuro il prezzo dei tanti interpreti troppo fragili. Solo Omero Antonutti, nelle vesti del padre di Bettino, e un ispirato Renato Carpentieri, che interpreta un collega democristiano disposto a qualsiasi abiura ma in visita ad Hammamet, sembrano all’altezza di un vertiginoso Favino che è Craxi nei tic, nelle posture, fin nella voce, come quando con un triplo salto mortale imita l’avversario Ciriaco De Mita in un avellinese macchiettistico.
Ma è la trama incerta con un finale poco riuscito a fare avvitare il film su se stesso. Il tentativo pregevole di Amelio si scontra con una sceneggiatura che non ha il necessario mordente per una storia così drammatica. C’era materiale per un affresco potente stile il Nixon tutto strategia politica di Oliver Stone o Il Divo di Paolo Sorrentino, non tanto come ritratto del personaggio, ma come riflessione sul potere e le sue trame. Ma Amelio e Alberto Taraglio (l’altro sceneggiatore) virano sull’indagine introspettiva.
La scena più bella resta il taglio di capelli fatto dalla figlia con il vecchio Craxi che spiega come di figli bisogna sempre farne due, perché se te ne ammazzano uno hai sempre l’altro. Perché è terribile vivere senza figli. La pellicola non parte però da qui, dal leader piegato che accetta l’esilio pur di salvare i due ragazzi.
Non dalla politica matrigna che mangia i suoi cari, dove tutte le armi sono legittime e ogni apparato dello Stato è in pista. Ma sfiora solo il tema. Chi non conosce la complessità e la crudezza del potere continuerà a credere che Tangentopoli si stata una moderna 'rivoluzione istituzionale', come la definì l'Economist. E non come Francesco Cossiga che parlò di “colpo di stato legale”. “Neppure Pinochet è andato personalmente col mitra in mano a sparare ad Allende”, raccontò amaro il presidente della Repubblica che prima di tutto era un giurista. Un “colpo di stato legale” perché decretò la morte di interi partiti usando una giustizia sommaria, le violazioni delle libertà civili e il diritto alla difesa, calpestando il segreto istruttorio, usando la custodia cautelare come strumento coercitivo per indurre alla confessione e l'avviso di garanzia in funzione della sistematica gogna mediatica.
Il film non tratta come sia stato possibile radere al suolo un’intera classe politica, piegata e sradicata e invece una parte di essa, il partito comunista e i suoi accoliti, risparmiata da ogni compromissione, quando usava gli stessi mezzi delle tangenti. Perché un leone come il leader socialista non si sia mai difeso nelle tv italiane in prima serata, come aveva promesso (e poteva farlo visti gli uomini che aveva nei vari palinsesti), spiegando davvero le sue ragioni, reagendo alla campagna mediatica che lo aveva sepolto nell’infamia. Il film non spiega perché nessuno abbia mai provveduto al suo arresto quando si sapeva dove fosse. Non parla delle minacce di morte ai figli e dell’esilio ad Hammamet come epilogo dopo le strane intrusioni nelle case di questi. Di quali poteri abbiano disegnato quella stagione. Troviamo invece un film sul privato, timido che un po' si nasconde dietro i sentimenti invece di farne delle leve. Forse vorrebbe piacere a tutti, a troppi ma con questa mossa pecca di poco coraggio. Peccato. Anche se va dato merito agli autori di aver tentato di sollevare una questione tabù in Italia, dove si deve lasciare intatta la vulgata che i socialisti erano tutti ladri e con loro il pentapartito, mentre il partito comunista era fatto di santi, peccato incassassero le medesime tangenti oltre ai finanziamenti dell’Unione Sovietica.
La vicenda Craxi resta un “grande rimosso” della politica italiana ma forse per Amelio non siamo ancora pronti per parlarne. L’autore non è lontano dal manifestarlo quando fa dire a Craxi, che discute su come scegliere i collaboratori, una frase mortale se pensiamo agli yesman delle attuali classi dirigenti: “L’intelligenza è un arma a doppio taglio ma la preferisco. Cosa te ne fai della lealtà di uno stupido?”.
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