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Cronache
Il decreto dignità è incostituzionale come il Jobs Act. LA SENTENZA

Con sentenza n. 194 depositata l’8 novembre u.s. – ma non ancora pubblicata sulla G.U. – la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 comma 1 del D.Lgs. 4.3.2015 n. 23 sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del D.L. 12.7.18 n. 87, convertito nella legge 9.8.18, n. 96” e cioè del provvedimento meglio conosciuto come Decreto Dignità.

Si tratta di una sentenza, a mio avviso, di assoluto rilievo ma che è sfuggita finora all’attenzione sia dei media sia di quasi tutti gli esperti di diritto del lavoro. Cerchiamo di capire di cosa si tratta e di quali potranno essere le conseguenze di questa pronuncia per aziende, lavoratori, giudici ed avvocati.

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La disposizione dichiarata incostituzionale, e quindi non più applicabile, è quella che dispone che un lavoratore che è stato licenziato ingiustamente – e cioè non per giusta causa né per giustificato motivo oggettivo o soggettivo – ha diritto non più alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro (com’era previsto prima dell’entrata in vigore del Jobs act e dell’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) ma soltanto – dispone espressamente l’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015 e del Decreto Dignità (!) – ad ottenere un’indennità di risarcimento “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione …per ogni anno di servizio” con un minimo di 4 mensilità e un massimo di 24, elevati dal Governo Conte rispettivamente a 6 e a 36 mensilità.

Dunque questi provvedimenti di legge tanto decantati, il primo dal Governo Renzi e il secondo dal Governo attuale, hanno sostituito alla tutela reale garantita dallo Statuto dei lavoratori (quale appunto era il diritto ad essere riassunto) una tutela risarcitoria che – sostiene la stessa Corte Costituzionale – per come è stata voluta e concretamente disciplinata “tradisce la finalità primaria della stessa tutela risarcitoria che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato”.

Questa nuova disciplina, che il decreto Dignità ha solo lievemente migliorato, contrasta con gli artt. 4 e 35 della Costituzione che garantiscono rispettivamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini e la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Ebbene questo diritto e questa tutela sono stati violati dalla norma ora dichiarata incostituzionale che è in contrasto – sottolinea solennemente la Corte – con il principio di uguaglianza e con quello di ragionevolezza in quanto fanno dipendere l’ammontare del risarcimento derivante da un licenziamento illegittimo dalla sola anzianità di servizio posseduta dall’interessato al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Ma la Corte Costituzionale, con una sentenza lunga addirittura 18 pagine, tutte molto chiare ed articolate, stabilisce anche quello che a suo avviso deve essere da subito il nuovo criterio con cui determinare l’importo del risarcimento: questo importo dovrà essere concretamente stabilito dal Giudice del lavoro che dichiara l’illegittimità di un licenziamento tenendo conto non solo dell’anzianità di servizio del lavoratore ma anche delle dimensioni dell’azienda da cui dipendeva, del tipo di attività economica che svolgeva, del comportamento e delle condizioni del datore di lavoro e del lavoratore.

Questi principi, sottolinea la Consulta, non sono nuovi ma corrispondono a quelli che si sono via via affermati nel tempo come i criteri da applicare per dare una conclusione il più possibile equa ad una controversia che, soprattutto per il lavoratore, spesso assume un’importanza “vitale” sia da un punto di vista economico che da uno morale e psicologico. Ad avviso sempre della Corte soltanto adottando queste linee di condotta, da seguire applicando la propria discrezionalità tecnica al singolo caso, il Giudice del lavoro potrà riuscire a tutelare da una parte la necessità dell’azienda di licenziare uno o più dipendenti e dall’altra il diritto di chi rimane senza occupazione di ottenere un risarcimento con cui far fronte ai propri più immediati bisogni.

Come detto si tratta di una sentenza davvero importante e significativa e che invita il legislatore – e cioè Governo e Parlamento – ad emanare, nei tempi il più possibile ridotti, disposizioni che siano davvero in grado di consentire ad una azienda di non vedersi rinviato all’infinito l’effetto di un licenziamento, se necessario e al lavoratore di poter disporre di un’indennità che tenga conto delle sue più impellenti necessità, comprese quelle familiari. Prima di chiudere va però anche sottolineato che i principi, giustissimi, sostenuti dalla Corte Costituzionale finiranno con il far aumentare ulteriormente il numero e la durata dei processi dinanzi al Giudice del lavoro. Un fatto questo che dimostra per l’ennesima volta il fallimento o la mancata attuazione di tantissime disposizioni introdotte dal Jobs act, rimaste spesso solo sulla carta, e la necessità di rivedere e snellire drasticamente tutta l’assurda e a volte incomprensibile normativa di cui si compone il nostro diritto del lavoro. Evidenzio infine come questa sentenza dimostri concretamente il fallimento del vero motivo che aveva spinto il Governo Renzi a cancellare quasi del tutto l’applicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: secondo questo Governo eliminando il pericolo di dover riassumere un lavoratore assunto a tempo indeterminato e licenziato illegittimamente, pericolo sostituito dal pagamento di un’indennità risarcitoria molto contenuta, e determinabile con certezza grazie all’applicazione della norma ora dichiarata incostituzionale, le aziende avrebbero proceduto ad un gran numero di assunzioni a tempo indeterminato.

La realtà di questi 3 anni di applicazione del Jobs act è stata purtroppo ben diversa: le assunzioni a tempo indeterminato costituiscono infatti soltanto il 7 per cento (ripeto sette per cento) di tutte le nuove assunzioni (il 93 per cento è stato infatti a tempo determinato) e i tassi di disoccupazione, soprattutto quello giovanile, sono rimasti tra i più alti non solo dell’Unione europea ma di tutto il mondo occidentale maggiormente industrializzato.

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