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Cronache
"Pantani doveva morire". In un libro tutti i misteri della morte del Pirata

Arriva in libreria con Chiarelettere, per la collana Misteri Italiani, "Il caso Pantani. Doveva morire", un libro inchiesta di Luca Steffenoni sulla fine del grande ciclista.

Gli ultimi giorni di Marco Pantani

Le inchieste sulla morte

Le clamorose rivelazioni di Vallanzasca

La camorra e le scommesse clandestine

Le ombre, i misteri

La verità indicibile dietro un suicidio troppo imperfetto


Giovanni Falcone disse: “Prima ti delegittimano, poi ti isolano e poi ti ammazzano”.

Ecco, forse anche con Pantani è andata così.

Il caso Pantani Steffenoni
 

Una morte da rockstar e il caso è chiuso. Ma qui non siamo a Los Angeles, siamo nel paese dei misteri irrisolti, dei depistaggi e delle doppie verità. State per leggere un giallo scritto da un criminologo che in un crescendo di suspense e rivelazioni entra nella scena di un suicidio troppo imperfetto per essere vero.

Una storia che deve essere raccontata anche dopo che l’iter processuale ha detto la sua ultima parola. Una storia che ci porta dritti nel territorio di una verità indicibile e clamorosa. Marco Pantani era un fuoriclasse troppo irregolare. La squalifica che lasciò sgomenta l’Italia intera era in realtà una gigantesca truffa ai suoi danni. In un giro di scommesse clandestine la criminalità organizzata aveva puntato cifre folli sulla sconfitta del Pirata. Gli elementi rilevanti per un criminologo fanno ritenere del tutto improbabile l’ipotesi del suicidio. Allora il caso non può essere chiuso.

L’autore chiede l’intervento della Commissione parlamentare antimafia, forse è l’unica strada per stabilire una verità che rischia ancora di far saltare troppi intoccabili. L’ultima strada per rendere giustizia a un uomo fragile e a un grande campione.

Luca Steffenoni è un criminologo che lavora come consulente per diversi tribunali. Da anni segue i grandi gialli italiani unendo le sue competenze professionali all’attività di scrittore e narratore. È stato redattore della rivista “Delitti & Misteri” ed è autore di vari libri, tra i quali ricordiamo: “Presunto colpevole” (Chiarelettere 2009) e “I 50 delitti che hanno cambiato l’Italia” (Newton Compton 2016). Come criminologo è spesso ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche.

ANTEPRIMA/ QUESTO LIBRO (tratto da Il CASO PANTANI di Luca Steffenoni, Chiarelettere Milano 2017)

Sembra un segno del destino che l’ultima pagina di questo libro venga scritta nel giorno in cui il mondo del ciclismo si raduna ad Alghero per onorare la centesima edizione del Giro d’Italia. La corsa parte con mestizia, nel ricordo di Michele Scarponi, morto il 22 aprile in un drammatico impatto mentre si allenava sulle strade di casa. Mi piace immaginare un Pantani di mezza età capace di trovare le parole giuste per spiegare il senso di questo sport che sta diventando sempre più estremo e pericoloso. Forse polemizzerebbe da uno studio televisivo, probabilmente avrebbe attinto a quella tremenda immagine di «torrida tristezza» alla quale fa riferimento in una sua lettera. Chissà. È tempo di lasciare questo lavoro al giudizio dei lettori. Per un criminologo la storia del ciclista di Cesenatico è essenzialmente ricerca della verità sulla sua tragica fine. Se l’esperienza professionale può aiutare a capire cosa sia successo a Rimini quel 14 febbraio 2004, diventa difficile esimersi dall’esprimere una posizione personale sul «caso Pantani», provando a dare risposta ai tanti enigmi lasciati aperti.

A Madonna di Campiglio, nel giugno del 1999, è stata commessa una frode sportiva ai danni di Marco Pantani a opera di esponenti dei clan camorristici interessati al ricco mercato delle scommesse clandestine?

La ricostruzione effettuata dai giudici del Tribunale di Forlì fornisce una risposta affermativa, pur vincolata al tempo trascorso da quel giorno e all’impossibilità di esplorare le connivenze, che tuttavia debbono esserci state, tra l’ambiente del ciclismo professionistico e la malavita organizzata.

Posata questa prima pietra sul terreno della verità, diventa fondamentale capire se Pantani, a più di quattro anni da quell’episodio e molto prima che emergessero i contorni di quella immensa truffa, potesse rappresentare un pericolo o un semplice fastidio per la camorra o per chi, all’interno del mondo sportivo, aveva permesso che tale truffa si realizzasse o l’aveva addirittura promossa e sostenuta. Qualcuno che avrebbe voluto zittire per sempre la voce di quel campione polemico e fin troppo tenace.

La risposta in questo caso è molto più difficile. Si tratta di un’ipotesi che forse non è mai stata scandagliata dagli inquirenti, nemmeno durante l’inchiesta del 2014, inevitabilmente influenzata dalla convinzione che dieci anni prima i colleghi della Procura di Rimini avessero agito nella maniera corretta e che quello avvenuto nella camera del residence Le Rose fosse un banale suicidio. L’opinione dell’autore è che su questo movente non sia possibile far luce mediante il percorso giudiziario tradizionale ma sia necessario l’intervento della Commissione parlamentare antimafia, la sola in grado di collegare le tessere del grande puzzle delle attività criminali che si muovevano tra sport e scommesse clandestine a cavallo del nuovo millennio. Date le premesse, il tema centrale del caso Pantani diventa ovviamente capire se nella stanza D5 si sia consumato un omicidio o un suicidio. Ancora una volta realtà processuale e punto di vista di chi scrive divergono. Tutti i dati criminologicamente rilevanti concorrono a far ritenere altamente improbabile l’ipotesi di un suicidio. Rilievi autoptici e ambientali, posizione del corpo e presunte modalità di assunzione della dose mortale di cocaina erodono la versione ufficiale e rendono poco credibile la tesi che Marco Pantani abbia voluto togliersi la vita. L’anamnesi stessa, ovvero la storia personale del campione, unita a un’indagine sulla sua personalità e sugli accadimenti immediatamente precedenti a quel 14 febbraio 2004, porta a escludere che si sia trattato di suicidio.

Eppure l’inchiesta del 2004 fotografa una realtà diversa. Possibile che sia stata fatta male, chiusa in modo frettoloso o addirittura in odore di complotto, come molti sospettano? Niente di tutto questo. Le indagini, compatibilmente con la cultura investigativa del periodo, sono state effettuate in maniera corretta.

Confondendo la realtà con la finzione cinematografica si è gridato allo scandalo per la carenza di un’approfondita indagine scientifica, per la mancata ricerca di tracce biologiche mediante Luminol, o per la carenza di catalogazione delle impronte digitali presenti sulle pareti e sugli oggetti.

Una stanza d’albergo è per sua natura piena di impronte e tracce, a che servirebbe esaminarle? Abbiamo idea di quante manipolazioni ha subito una bottiglia di acqua minerale, dalla fabbrica al trasporto, prima di arrivare sulla mensola della camera D5? Possiamo credere che un assassino professionista, perché di questo si tratterebbe, non utilizzi dei guanti e lasci impronte ovunque? La realtà è che l’indagine svoltasi nel 2004 fu eseguita correttamente. Sono le sue conclusioni a essere discutibili, perché inevitabilmente vincolate ai pochi elementi a suo tempo in mano agli inquirenti.

Per un meccanismo di banale economia giudiziaria, l’indagine sull’omicidio di Marco Pantani non c’è stata. L’unica pista seguita dagli inquirenti nel 2004, e tenacemente difesa dieci anni dopo, è quella del suicidio.

Tra una tesi scientificamente improbabile come il suicidio e una che può sembrare del tutto fantasiosa come l’omicidio, il sistema giustizia tenderà sempre a preferire la prima.

Col senno di poi si sarebbero potute seguire le tracce della cocaina venduta a Pantani, infilarsi nei vicoli di Napoli per giungere, con una buona dose di fortuna, al trafficante ultimo di quella catena mortale, sfiorando così i santuari della camorra, senza il cui consenso non è ipotizzabile alcun rifornimento. Con un’inchiesta ai limiti dell’impossibile si sarebbero potuti conoscere tutti i nomi degli affiliati ai quali la notizia di un Pantani in difficoltà fisica e psicologica, chiuso in una stanza d’albergo e senza testimoni, sarebbe potuta tornare molto utile. Si sarebbe potuto realisticamente chiedere tale indagine agli inquirenti di Rimini, dieci anni prima che l’ipotesi camorristica facesse breccia a partire dalle rivelazioni di Renato Vallanzasca, poi riscontrate dalla magistratura? Ovvio che no. L’unica certezza che abbiamo è che chiunque, negli ultimi mesi, abbia rifornito l’ex ciclista non poteva prescindere dall’ombra dei clan. Dunque, con molta probabilità, i boss sapevano dove e come stava il Pirata.

Pantani forse doveva morire, perché rappresentava una spina nel fianco non solo per chi aveva commesso l’illecito di Madonna di Campiglio, ma anche per i tanti che con la camorra in quegli anni avevano fatto affari.

Proviamo a pensare cosa sarebbe accaduto se un ciclista del calibro di Pantani, a fine carriera, avesse seguito le orme di Danilo Di Luca, mettendo nero su bianco le ipocrisie del sistema antidoping, e denunciando gli interessi economici e gli affari che sovrastano il mondo del ciclismo professionistico. Forse il sistema stesso dietro uno degli sport più popolari sarebbe crollato. Dietrologia? Può darsi. Sarebbe stato comunque interessante se almeno in una delle due inchieste svoltesi a Rimini si fosse contemplata anche questa ipotesi. Purtroppo non è accaduto. Agli inquirenti, a pochi minuti dal ritrovamento del cadavere, è stata fornita una versione suggestiva, e in parte falsa, su chi fosse Pantani e sui presunti motivi di un suicidio. Forse l’immagine romantica e dannata del campione faceva comodo a tanti, sorvolava su chi, tra i personaggi a lui vicini, gli avesse fornito le prime piste di cocaina, e allontanava responsabilità e sensi di colpa di chi non aveva saputo o voluto sostenerlo in vita. Giovanni Falcone diceva: «Prima ti delegittimano, poi ti isolano e poi ti ammazzano». Ecco, forse è andata così.

© 2017 Chiarelettere editore srl

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