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Cronache
Paolo Borsellino, l’eroe tradito dallo Stato

Il “clan” Riina attese in silenzio sei anni prima di colpire coloro che avevano istruito sull’Asinara un capolavoro giuridico come l’ordinanza-sentenza “Abbate Giovanni + 706”. Una pietra miliare dell’antimafia, depositata l’8 novembre ’85, costruita su un impianto accusatorio di 8 mila pagine con 707 indagati, 475 dei quali rinviati a giudizio, che si concluse in primo grado con 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione. A farne le spese gente del calibro di Pippo Calo’ (il cassiere dei Boss) e Michele Greco detto il Papa, il reggente della “commissione” interprovinciale.

Dopo la sentenza di appello, che si concluse con una sostanziale riduzione delle pene (rispetto al maxiprocesso) ai principali capicosca siciliani, si giunse al tanto agognato 30 gennaio 1992. I timori di Falcone per la questione “turnover” a Palazzo di Giustizia, se pur giustificati, fortunatamente svanirono. La Suprema Corte, presieduta da Arnaldo Valente, conferma tutto. Decine gli ergastoli e migliaia gli anni di carcere per centinaia di uomini d’onore di Palermo e provincia. L’ultimo tassello si allinea alla decisione già presa a suo tempo dall’equipe di Alfonso Giordano. Tuttavia, la soddisfazione dura poco. Il momento della vendetta trasversale si avvicina. Dovevano pagare anche gli amici. Il dado è tratto. C’è chi, come Lima, il “Re del Sacco”, il luogotenente territoriale della Democrazia Cristiana filo-andreottiana, unitamente a Ciancimino e Gioia, aveva garantito, a nome del partito, assoluzioni, sconti e ribaltamenti di “giudizio” o chi, come Ignazio Salvo, uno dei due storici cugini esattori, si era spacciato da invincibile mediatore tra i padrini corleonesi e lo Stato. Nell’emisfero degli acerrimi nemici di Don Toto’, non potevano certo mancare i due magistrati più invisi al mondo, quelli che avevano messo in piedi lo “spettacolo” nell’aula bunker dell’Ucciardone, quelli non digeriti da numerosi politicanti e colleghi, quelli “uccisi” nell’anima già nel 1988, con la scelta di Meli al posto di Falcone alla guida dell’ufficio istruzione del capoluogo siculo.

Marzo, Maggio, Luglio e Settembre. Con cadenza quasi bimestrale, come fosse una macabra ritualità, ecco che vengono sistemati a turno: Salvo Lima (12 marzo), Giovanni Falcone (23 maggio), Paolo Borsellino (19 luglio) e Ignazio Salvo (17 settembre). Inizia Lima, termina Salvo, in mezzo i due esponenti più rappresentativi del pool, abbandonati dalle istituzioni. La mano è chiara, e anche il “sistema”. Ai conniventi, rei di aver disilluso le aspettative, il piombo in faccia, ai “guerrieri” della legalità un’esagerata quantità di tritolo. Era palese che, quest’ultimi, dovevano morire davanti a tutti e nella maniera più eclatante possibile.

Oggi si celebra la triste ricorrenza di Via D’Amelio ove persero la vita, 27 anni fa, Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Pieno centro, di fronte all’abitazione della madre. L’affronto è dei più sfacciati. Cosa nostra, nelle mani del gruppo armato che fu di Liggio, ha azionato il timer contro un magistrato puro, onesto, coraggioso, che non si è piegato neanche dinanzi alle minacce di morte o agli attacchi subdoli di quei servi del potere, da egli stesso considerati letteralmente GIUDA, che vanno identificati in qualche finto sodale e alcuni “compagni di lavoro” divorati dall’invidia e mossi dalla bramosia del soldo facile. Infami veri, senza dignità e onore!

Sulla tragica vicenda “D’Amelio” potremmo snocciolare pagine e pagine di libri in ambito processuale: “Borsellino uno”, “Borsellino bis”, “Borsellino ter”, nuovi elementi e “Borsellino quater” e tutta una serie di attività investigative correlate e incrociate sia con la “Trattativa” che con i presunti mandanti. Così come potremmo sollevare la sconcertante responsabilità dei parcheggi di fronte alla casa della madre. Erano venti giorni che il Procuratore aveva chiesto la rimozione dei veicoli in sosta. L’inspiegabile silenzio ancora riecheggia altisonante e inquieta le coscienze.

Ma noi oggi vorremmo ricordarlo in un altro modo. Con le parole della moglie e alcuni suoi ultimi passaggi di interviste fatte poco prima di lasciare orfana un’isola e un’intera nazione.

La consorte Agnese affermò: “Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”. Sui giorni di Giuda, a proposito di Falconi, egli disse: (…) “Si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli”.

(…) “...per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio, il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio”.

********** Niente passi indietro. Nessuna paura. Sapeva di morire ma non dove e quando. Solo un uomo di enorme spessore morale e con un’altissima considerazione verso la Patria poteva proseguire una sfida così impari per la verità. David Lawrence scrisse: “Non mi fu mai dato di vedere un animale in cordoglio di sé. Un uccelletto cadrà morto di gelo giù dal ramo senza aver provato mai pena per se stesso”. Ecco la grandezza di Paolo Borsellino.

Nessun cordoglio di sé. Non si è mai pianto addosso. Sapeva benissimo che la sua ora era arrivata. E’ morto sapendo di morire e ha vissuto fino all’ultimo secondo senza aver provato mai pena, paura, cedimenti o rimpianti. Dopo tutta una vita dedicata alla lotta alla mafia se n’è andato come avrebbe sicuramente voluto: a testa alta, da umile servitore di uno Stato che - in più di un’occasione - gli ha persino voltato le spalle. Ma la memoria degli Eroi sopravvive sempre nel ricordo dei vivi!

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