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Cronache
Ponte Morandi Genova, storia di una lunga e inesorabile decadenza bimillenaria

Cronaca di una giornata al ponte Morandi di Genova, e di un’Italia sotto al ponte, dove però anche il ponte è crollato.

Gli antichi romani erano grandi costrutturi di ponti, arte appresa dagli Etruschi.

Simbolo di efficienza, forza, capacità, opulenza e soprattutto abilitatori di mobilità e del commercio. 

Il ponte era cosi importante che originò la nascita del primo e maggior sacerdozio romano: il Pontifex, o pontefice (pontem facere) era il "facitore di ponti".

Il Ponfifex Maximus era il massimo grado religioso al quale un romano poteva aspirare. Era il capomastro della costruzione dei ponti, e sosteneva e curava l’arco religioso tra uomini e Dei e tra Dei, cosi come il cuneo sosteneva l’arco.

I poteri e i doveri della carica appartenevano ai Re di Roma fin dall’Ab Urbe Condita del 753 a.c. e dalla costruzione del primo ponte (il Ponte Sublicio, vicino all’isola Tiberina) e successivamente agli Imperatori, fino al 376 quando Graziano, con la diffusione della religione cristiana, rinunciò alla carica di pontefice massimo, che fu assunta dal vescovo di Roma, ovvero dal Papa.

I ponti consentivano di far transitare persone, carri, merci, animali, acqua e facevano parte di quel sistema infrastrutturale e viario che i romani ritenevano fondamentale e nevralgico per far funzionare uno dei principali “stati” del mondo, alla stessa stregua del ruolo del sistema circolatorio e nervoso del corpo umano. 

Traiano fece realizzare ad Apollodoro intorno al 105 d.c. un ponte sul Danubio più lungo di 1,1 km, esattamente come il ponte Morandi, che gli consentì di invadere e conquistare la Dacia (odierna Romania), raggiungendo la massima estensione dell’impero romano. Per più di mille anni fu il più lungo ponte ad arcate mai costruito al mondo, sia in termini di lunghezza totale che di larghezza delle sue campate.

E dopo oltre 2000 anni infrastrutture e ponti sono ancora li. Magari distrutti più dai barbari e dai secoli bui che dal tempo. 

Ma una domanda sorge spontanea: si è perso il ruolo del “Pontefice”,  il “costruttore di ponti”?

E gli archi si usano ancora? E lo stile, il senso, la bellezza?

Il ponte Morandi sembra non avere nessuna di queste tre caratteristiche.

Certo, anche il Ponte di Brooklyn non ha archi, ma è di acciaio. Ha due caratteristiche su 3. Un “pontefice” e uno stile ancora ineguagliato da oltre 135 anni.

Il viadotto di Genova è costruito tra le case, sulle case, un’orribile e sordido simbolo di una urbanistica e purtroppo di una civiltà decadente, addirittura accelerando la fuga all’indietro di una società sempre più insipiente, indolente, inerte, inutile. Superfluo ricordare l’urbanistica della Roma antica, di Pompei. L’Italia s’è mesta.

infografica struttura ponte
 

Il ponte Morandi fu costruito tra il 1963 e il 1967 ovvero dopo il secondo dopoguerra, nel periodo del cosiddetto “miracolo” o “boom” economico, nell’ambito di una ricostruzione che ha fatto dell’orrido e dell’umanamente indegno il senso “ricostruttivo” e di sviluppo del “Bel” Paese.

Cosa accadde in quegli anni?

Negli anni 60 ci furono varie crisi mondiali, iniziò la guerra fredda, la guerra del Vietnam, i missili a Cuba e la Baia dei Porci, l’assassinio di JFK e di Martin Luther King, il colpo di stato in Grecia, la primavera di Praga e i carri armati a Varsavia, i test nucleari, il fenomeno hippy, il terrorismo, la corsa allo Spazio, la Francia uscì dalla NATO.  Anni difficili.

La costruzione delle vele di Scampia fu avviata nel 1962 e il progetto di di Chernobyl fu approvato nel 1967.

Sempre in quel periodo furono “progettate” ed estese le orribili periferie di Roma (con il piano regolatore del 1962), di Milano, di Torino, di Napoli. E la lista potrebbe continuare senza fine.

Siamo stati nell’area di via Porro, la strada sotto al ponte Morandi.

Il ponte sembra una struttura fatiscente post moderna di una ex centrale atomica. Osservandolo da sotto sembrano visibili vari rattoppi, pecette. In molti punti ci sono sono dei quadrati dipinti di rosso con dei numeri. I plinti del ponte sono inseriti tra i tetti delle case, delimitandone e modificandole il perimetro.

Un orrore, un senso di depresso, di morte, di umanamente ignobile. Il detto di vivere sotto ad un ponte, sopra al quale peraltro passava l’autostrada e milioni di auto e tir, assurge qui ad un concetto quasi mistico, onirico, penitenziale, agghiacciante. Sembra “the day after”. E la tragedia accaduta rafforza un pensiero ed una essenza che erano già li.

Al check point di via Filak, all’ingresso dell”area rossa”, c’è la postazione dei Vigili del Fuoco e della Protezione civile. Tante famiglie in attesa di essere chiamate per essere accompagnate per recuperare le cose più importanti, i propri ricordi, in pochi minuti. I pochi minuti che hanno distrutto la vita.

E si riempiono le grandi buste plastificate dell’Ikea, dell’Esselunga, della Lidl, della Coop. Le carrozzine dei bambini vengono usate come carrelli. E poco dopo vengono portati i carrelli del supermercato, assai utili per caricare e trasportare gli oggetti dalle case lungo la strada che porta al di fuori della “zona rossa”. E le camionette dei Vigili del Fuoco supportano le varie, povere famiglie, spogliate di tutto, a trasportare quel poco che si riesce.

E una lettera di un amico, di una famiglia che abita in via Porro, arriva impietosa:

“Sono cresciuto sotto quel ponte e con sacrificio i miei genitori e mio nonno hanno acquistato i due apprtamenti che ora sono minacciati dal crollo del ponte. Ci giocavamo da bambini e non ci siamo mai preoccupati del pericolo che stavano correndo.

Per lavoro ci passavo sopra 2 volte al giorno e pensavo ogni volta a mia madre vedova e a mio fratello che ora vive nella casa dei nonni. Adesso sono sfollati, senza un futuro e soprattutto senza più i ricordi di una vita.

Foto del papà defunto, di noi piccoli, mille oggetti che ricordano tutta una vita.

Il ponte vibra, il ponte crolla, non potete prendere nulla. Avrete casa e soldi, ma sapendo di essere in Italia finiremo per anni in container posto chissà dove”.

Chiamiamo un Pontefice. Un Pontifex Maximus. Per ricostruire, per costruire, per rifare i ponti, le strade, le grandi opere, le infrastrutture, l’Italia. Facendola uscire da sotto il ponte e riportando il Paese al “Bel Paese” e agli splendori e al ruolo dei tempi che furono. E con l’occasione cerchiamo di farlo gestendo adeguatamente il macigno del debito pubblico.

luca_greco@hotmail.com

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Tags:
decadenza millenariaponte crollato genovaponte morandipontefice maximusponti romani
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