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Cronache
Scientology perde causa contro 2 giornalisti. Deve anche pagare le spese
 

Due giornalisti si sono infiltrati con la telecamera nascosta nella ‘più grande chiesa del pianeta’, sono stati interrogati con la macchina della verità e hanno dovuto confessare i dettagli più intimi della loro vita privata. Una volta arruolati, hanno dovuto lavorare fino a 13 ore al giorno, per un potenziale stipendio di circa 200 euro al mese”. 

Era questo, nel novembre 2017, il lancio dell’inchiesta sulla Chiesa Scientology di Milano del programma televisivo Report che poi avrebbe mandato in onda l’inchiesta. I due giornalisti, Andrea Sceresini e Giuseppe Borello, avevano girato un servizio di meno di mezz’ora con Borello “infiltrato” nella comunità con un’identità fittizia, facendosi chiamare Alberto Colaci, e da qui registrando con dispositivi audio e video la parte sotto copertura che ha permesso di entrare in contatto con la comunità e accedere ai corsi degli adepti.

 

Scientology si è sentita danneggiata da quel servizio, “L'organizzazione”, e si è rivolta al tribunale civile di Milano chiedendo “un risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti” pari ad 80.000 euro. “La causa petendi della domanda non è identificabile nella diffamazione con il mezzo della stampa”, ha scritto il giudice di Milano Nicola Di Plotti che si è occupato del caso.

 

Il giudice con sentenza del 20 marzo, ha rigettato “le domande di Chiesa di Scientology di Milano Continentale” ed ha condannato la stessa “alla rifusione delle spese processuali in favore dei convenuti, che liquida in € 13.430,00 oltre al rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%”

 

Per la Chiesa i due giornalisti avevano violato un domicilio privato. Ma il giudice ha sentenziato che “la sede di Scientology non può essere qualificata come un luogo di privata dimora, rilevante ai fini della commissione del reato di violazione del domicilio di cui all’art. 614 c.p., trattandosi piuttosto di un luogo aperto al pubblico.”

Non vi è nessuna violazione di domicilio “trattandosi di un luogo aperto al pubblico… in quanto luogo di culto è accessibile a una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto”. 

Il giudice: “il Codice della Privacy trova applicazione unicamente nei confronti delle persone fisiche” e “la lesione della privacy (peraltro, allegata solo genericamente e non provata)”, fa capo eventualmente a loro e non ad un’ente collettivo.

 

“Nemmeno meritano accoglimento le domande volte ad accertare la responsabilità di Giuseppe Borello per l’illecita captazione, operata dallo stesso con telecamere e registratori nascosti, delle immagini e delle registrazioni ritraenti i fedeli della Chiesa nello svolgimento dei loro privati rituali, nonché, in solido con Sceresini, per l’illecita diffusione e divulgazione di tali immagini e registrazioni.”

 

“Non risulta”, scrive poi la sentenza “che il convenuto (Borello, ndr) sia mai entrato nella sede senza l’autorizzazione dell’attrice o che vi si sia trattenuto a seguito e nonostante l’espressione del dissenso alla sua permanenza, né basta a superare tale dato di fatto il rilievo che il convenuto abbia utilizzato un falso nome per iscriversi all’associazione.”

 

Borello e Sceresini, difesi nel rito civile dagli avvocati Cesare Del Moro e Ilaria Bassi e nel penale dall’avvocato Marco Tullio Giordano hanno anche sporto denuncia contro il sito https://pennivendoli.wordpress.com per una presunta diffamazione a loro carico. Le indagini sono tutt’ora in corso.

 

Sceresini ad Affaritaliani: “Si tratta di una sentenza importante perché conferma la liceità dell'utilizzo di strumenti giornalistici come la telecamera nascosta e le investigazioni undercover, senza i quali molte inchieste non potrebbero semplicemente essere fatte.”

 

Perché proprio un’inchiesta sotto copertura? 

Sceresini: “Abbiamo cercato di raccontare cosa è la Chiesa di Scientology, come tratta i propri attivisti e come recluta nuovi adepti. L'unico modo per farlo era infiltrarsi nell'organizzazione”.

 

Quasi nessuno ha raccontato del caso ad eccezione della giornalista Manuela D’Alessandro sul sito giustiziami.it

 

 

 

 

 

 

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