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Cronache
Stefano Boeri: "Così il terrorismo si prende i nostri quartieri"
Terrorismo, intervista a Stefano Boeri

di Lorenzo Lamperti
twitter11@LorenzoLamperti

Stefano Boeri ha più volte affrontato il fenomeno della radicalizzazione in relazione alla conformazione delle città europee. Lo ha fatto per esempio nel libro L'anticittà, edito da Laterza nel 2011. E lo fa ora, dopo gli attentati di Bruxelles e la discussione aperta sul cosiddetto quartiere-mostro di Molenbeek.
 
Stefano Boeri, in che modo incide la mappa urbana di una città sui fenomeni di radicalizzazione?
E' un elemento importante ma non è quello decisivo nel decidere la geografia del terrorismo. E' fondamentale sottolinearlo. Se guardiamo con attenzione i percorsi e le biografie dei terroristi che hanno colpito a Parigi e Bruxelles, notiamo ad esempio come la maggior parte di loro provenga da quartieri residenziali non periferici, da zone che hanno una matrice sociale piccolo borghese. Come nel caso di Molenbeek, una zona a due passi dal centro della città, non certo un quartiere popolare o della periferia operaia. 
 
Che cosa significa questo?
Questo fa pensare che in realtà la traccia per individuare le matrici del terrorismo non stia tanto nella matrice socioeconomica, nei fattori di degrado o di povertà. O quantomeno che questo non sia l'unico aspetto che crea un contesto favorevole alla nascita di traiettorie suicide e violente. Il vero problema è piuttosto culturale e identitario. Molti di questi giovani terroristi arrivano da famiglie integrate, sono figli di seconda generazione che da un lato hanno perso un legame legame organico con quelle che credono essere le loro radici originarie (mitizzate spesso in contrapposizione al sempre più blando senso di  appartenenza sviluppato dei genitori e nonni integrati) e dall'altro non sviluppano un senso di appartenenza alla comunità che li ha accolti, alla città che li ospita. In questa sorta di incertezza identitaria, di intervallo di appartenenza, vince a volte l’attrazione verso quel surrogato di identità che il Califfato propone loro e che fa breccia grazie alla sua potenza mediatica e alla sua promessa di un’appartenenza totalizzante e eterna...
 
Qual è il legame con la religione?
Mi permetto di dire -anche provocatoriamente- che la religione non mi pare la molla principale di queste scelte folli. Alcuni dei giovani terroristi di Bruxelles non avevano neppure mai frequentato le moschee, ma provenivano invece da un mondo di furti e piccola delinquenza. 
Sento parlare tutti di interventi necessari sulle periferie, sui trasporti pubblici, sui servizi. Oppure di forme più rigide di controllo sulle moschee e le scuole coraniche. Tutte preoccupazioni legittime, ma il vero problema legato alla radicalizzazione terrorista va oltre quello delle periferie e dell’integralismo religioso. 
 
Come si risolve allora il problema?
Creando e moltiplicando i luoghi e le situazioni di scambio culturale, di arricchimento della propria identità. Che significa, in sintesi, imparare a guardarsi con gli occhi degli altri.
Spesso i giovani attirati dal Califfato non hanno avuto la possibilità di costruirsi una propria identità entro un processo di scambio culturale; si sono ritrovati al contempo fuori da (quella che pensano sia) la loro cultura originaria e fuori dalla consapevolezza di una nuova cittadinanza. 
La prima cosa da fare è allora quella di pensare a cambiare e migliorare la scuola. Serve una scuola che sia capace non solo di integrare, ma anche di mettere in connessione generazioni, mondi e culture diverse. Le scuole-ghetto, caratterizzate per cultura o provenienza, sono la cosa peggiore che possiamo avere. La scuola deve essere un luogo di continuo scambio e osmosi delle culture - e di costruzione dialogica delle identità. I problemi principali di un quartiere come Molenbeek non sono la povertà, il degrado o l’assenza di servizi- ma la sua omologazione e chiusura culturale.
 
Quanto è alto il rischio di radicalizzazione nelle città italiane?
In Italia la ghettizzazione socio/culturale è ancora un fenomeno limitato; e non riguarda solo le comunità migranti. Anche perchè, ci piaccia o no, nelle città italiane, la periferia è ovunque -e d’altro canto il degrado arriva anche nel centro di città come Napoli, Genova o Milano... Penso a ghetti come Secondigliano o ai quartieri spagnoli a Napoli; o a parti del centro storico di Genova… Ghetti che hanno una storia non legata a recenti immigrazioni.  E non abbiamo grandi aree periferiche e totalmente omologate dal punto di vista culturale, come invece accade -per fare un esempio- nelle banlieue francesi. 
La cosa più importante, lo ripeto, è evitare di creare dei ghetti culturali. E' una sfida grandissima e urgente, per tutti noi.
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