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Cronache
Ecco perché si deve parlare di guerra e non di dialogo


Di Gianni Pardo

Qualcuno che reputa evidente un’idea, si meraviglia che non tutti la condividano. Infatti, quando ciò avviene, l’idea cessa di essere tale e diviene un dato di fatto, come la forza di gravità. Mentre così non è.

Nei Paesi sviluppati, che una donna non sposata abbia avuto precedenti esperienze sessuali non è un motivo di condanna morale né di esclusione da un progetto matrimoniale. Nei Paesi musulmani la mentalità è all’opposto e il risultato è che gli occidentali reputano i musulmani dei “selvaggi”, e i musulmani reputano gli occidentali degli amorali privi di dignità. Questo genere di convinzioni è così radicato che nemmeno il contatto col gruppo che la pensa diversamente fa sorgere dubbi. Il musulmano che viene a vivere in Europa è capace di uccidere sua figlia, se ha un amante senza essere sposata, e l’occidentale che va in Arabia Saudita rischia la pena capitale a causa di ciò che reputa lecito in materia di libertà di parola, di alcool e di sesso.

Noi occidentali ci reputiamo largamente tolleranti e comprensivi perché ci togliamo le scarpe, entrando nelle moschee. Ma le differenze fra i gruppi umani vanno molto al di là di questo, e una di esse, fra le più sorprendenti, è la considerazione della vita umana.

L’uomo ha come primo interesse la conservazione di sé ma, essendo un animale sociale, ha anche un preciso interesse al bene del gruppo cui appartiene, perché da esso in ultima analisi dipende la sua sopravvivenza. Le due spinte di solito sono convergenti, ma a volte divergono: dalla prima nasce il diritto alla legittima difesa, che consente l’uccisione del simile, dalla seconda la stima per l’eroe che addirittura sacrifica per il gruppo la propria vita.

A livello soggettivo l’eroismo di un carabiniere come Salvo D’Acquisto va tuttavia spiegato. Quel giovane si sarà detto che sacrificandosi avrebbe preservato la vita di una ventina di innocenti, e che per la società il bilancio sarebbe stato positivo. Ma per vederla in questo modo egli s’è messo nei panni della comunità, dimenticando sé stesso e ribaltando così l’atteggiamento medio. Ciò è eccezionale: ma in tutti i tempi e presso tutte le comunità si costituisce un bilanciamento fra queste due spinte. Le termiti guerriere si sacrificano senza esitare per la comunità, ma anche da noi occidentali una persona normale magari non sacrificherebbe la vita per gli altri, ma lascerebbe distruggere la propria automobile per salvare da morte sicura una ventina d’innocenti.

Quel bilanciamento c’è sempre, ma dà risultati diversi secondo i casi. Gli eserciti in cui il singolo soldato sente d’appartenere ad un gruppo coeso e obbedisce anche quando ciò facendo rischia la morte, sono i più efficienti. Viceversa quelli in cui i singoli, non appena temono per la propria vita, sono pronti a disertare, sono i più facili da battere. Le diverse società inducono una certa considerazione della vita. Per esempio i romani le davano un’importanza minore di quella che le diamo noi. Non solo sterminavano all’occasione anche centinaia di nemici vinti, ma negli scontri fra Mario e Silla, fra Cesare e Pompeo, fra Bruto e Cassio e Marcantonio, ognuno non metteva in gioco soltanto la propria carriera politica, metteva in gioco la propria vita. Il suicidio degli sconfitti, di cui tante volte abbiamo letto, va interpretato pensando che quella conclusione per loro era stata messa in conto: col suicidio spesso sfuggivano ad una morte ignominiosa. Basti pensare a Giugurta, che fu lasciato morire di fame, o a Vercingetorige che fu ucciso dopo aver sfilato in catene dietro Cesare in trionfo.

Qualcuno dirà che questi sono episodi lontani nel tempo, e invece no, sono contemporanei. Non soltanto abbiamo avuto i kamikaze, nella Seconda Guerra Mondiale, ma al giorno d’oggi abbiamo esseri umani capaci di rinunciare alla propria vita non soffusi d’onore e di gloria, come quei giovani giapponesi, ma per scopi molto meno nobili e perfino orrendi. Parliamo dei terroristi, di cui finalmente possiamo comprendere meglio l’atteggiamento mentale.

Il terrorista sente di appartenere ad un gruppo in possesso di una verità incontestabile. E quel gruppo persegue uno scopo per il quale val la pena di morire. Che si muoia o che si facciano morire altri, anche innocenti, poco importa. E infatti l’intera comunità, persino la sua famiglia, onora lo shahid, il martire. Egli “lotta” contro un’altra comunità giudicata tanto negativamente da considerare degni di morte tutti i suoi membri, senza distinzione di sesso, d’età o di eventuali colpe.

Questa svalutazione della vita è tanto più facile quanto più la società si sente unita sotto un Capo indiscutibile. Infatti la pena di morte è più frequente nelle dittature (si pensi al numero di esecuzioni capitali in Iran anche di giovani incensurati per un reato assurdo come l’omosessualità) e dovunque la mentalità sociale sia unitaria e indiscutibile. Ciò è anche favorito dal credere in una verità assoluta e incontestabile, come quella contenuta nel Corano. E infatti in molti Paesi musulmani non soltanto è impensabile mettere in discussione il Corano, ma già distruggere un oggetto – il libro – in cui esso è contenuto comporta la pena di morte. Ciò fa misurare quanto più importante sia il Corano rispetto alla vita di un singolo. E non si tratta di sadismo governativo: l’intera comunità ad esempio non trova assurda la pena di morte per l’apostasia.

Tutto ciò ci è talmente estraneo, che il terrorista possiamo inquadrarlo soltanto come un caso di follia. L’idea di perdere la vita per dare pubblicità al nostro partito, o di considerare così poco la vita dei nostri nemici da spenderla senza la minima ragione valida e soltanto per ottenere qualche titolo di giornale, ci sembra assurda. Ma proprio questa totale incomunicabilità deve spingere a parlare di guerra, non di dialogo.

Il grande insegnamento di queste considerazioni è che l’uomo non percepisce tanto la realtà quanto il proprio condizionamento, i propri sogni, la propria follia. Nessun mammifero superiore sano di mente – come un gatto o un cavallo – si giocherebbe la vita senza necessità, per uno scopo fittizio o addirittura immaginario. Siamo certamente la specie più intelligente, ma non necessariamente la più equilibrata.

pardonuovo.myblog.it

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