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Cronache
Wong, leader di "Occupy Hong Kong" arrestato in Thailandia

L’avevano invitato in Thailandia perché insegnasse ai giovani di lì che un altro mondo è possibile, protestare si può e anzi si deve, nessun regime deve farci più paura, mai. Joshua Wong, il leader di Occupy Hong Kong, è stato invece arrestato appena sceso dal volo Emirates EK385 che ieri sera l’aveva portato a Bangkok per partecipare alla manifestazione che ricorda i 40 anni del massacro all’università Chulalongkorn.

La lezione, questa volta, l’hanno data gli zelantissimi poliziotti della giunta spacciata per governo da Prayuth Chan-o-cha, l’ex generale alla guida del paese che a maggio ha celebrato i due anni di golpe, allontanando ancora una volta la promessa di libere elezioni. Gli attivisti di Human Rights Watch qui in Cina non hanno dubbi: “Bangkok si sta piegando a Pechino: Wong dev’essere immediatamente liberato, ha il diritto di viaggiare ed esercitare la libertà di espressione”. Una parola. L’attivista e fondatore di Demosisto, il partito democratico più ribelle di Hong Kong, sarà anche lasciato andare, ma l’episodio sembra segnare davvero un punto di non ritorno.
Wong è il ragazzo che a vent’anni è diventato famoso in tutto il mondo per avere guidato quella rivoluzione degli ombrelli che è la prima, vera grande protesta di massa in Cina dai tempi di Tiananmen. 

Certo Hong Kong non è la Cina, l’ex colonia inglese gode ancora di uno status particolare, ma proprio per non arrendersi al definitivo passaggio sotto l’ala di Pechino i ragazzi come Wong prima sono scesi in piazza e poi entrati a sorpresa anche nel parlamento locale. Lo smacco qui brucia ancora e l’arresto in Thailandia è dunque più di un segnale: la protesta non si esporta, fuori da Hong Kong non siete nessuno.

L’operazione telecomandata è stata confermata da Netiwit Chotipatpaisal, il dissidente thailandese – il primo obiettore di coscienza del paese - che aveva invitato Wong a manifestare oggi a Bangkok: “Wong è stato fermato dai funzionari della dogana perché c’è stata una richiesta delle autorità cinesi al governo”. Netiwit è il leader del movimento di qui, anche lui uno studente ventenne che ha fatto scoppiare un caso per essersi rifiutato di inchinarsi davanti a una statua del defunto re di Thailandia. Il massacro di Chulalongkorn è uno degli episodi più cruenti del tentennante cammino di Bangkok verso la democrazia e la decisione di commerarlo oggi era più di una sifda: “Le critiche di uno solo non bastano, non è così che riusciremo a cambiare questo paese” aveva detto qualche ora prima al Financial Times il giovane universitario: “Abbiamo bisgno di imparare nuovi metodi di protesta, come hanno fatto a Hong Kong”.

Era stato lui stesso a invitare Wong a Bangkok nell’anniversario di quel massacro di decine di studenti, che il regime di allora temeva avrebbero portato la Thailandia ad abbracciare I comunisti
di Laos e Cambogia. Oggi, ironia della storia, comunista si chiama ancora il potere che da Pechino sta tappando la bocca a Joshua Wong, a Netiwit Chotipatpaisal e ai tanti ragazzi che quaggiù credono ancora che cambiare è possibile: e lo pagano sulla propria pelle.

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