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Culture
Denis Mack Smith e la storia d'Italia? Gossip, come gli scritti di Montanelli

Di Gaetano di Thiène Scatigna Minghetti

Ora che, finalmente, i peana hanno cessato di levarsi al cielo; ora che le voci stucchevoli dei laudatores tacciono, è giunto il momento d'intervenire, sine ira et studio, esternando il mio convincimento sull'opera dello storico inglese Denis Mack Smith.

         Tutte le opinioni, le più disparate, convergono su di un punto: questo signore inglese, in fatto di studi storici, è stato, almeno per l'Italia, un innovatore; anzi, un rivoluzionario, indicando le modalità più consone alla redazione di un saggio di storia; un saggio di storia fuori dai paludamenti accademici, estraneo alla visione compassata di cui disponevano fino alla precisa stagione temporale in cui vennero pubblicate le sue prime ricerche, tutti quegli studiosi che in Italia si interessavano delle vicende, degli accadimenti che, via via, hanno formato l'Europa e hanno contribuito a fare superare all'Italia il deplorevole status di “espressione geografica”.

         Per quello che mi concerne, intendo dissentire nettamente dall'intonazione entusiastica, dalle modulazioni politically correct giornalistiche e, talvolta, accademiche di cui si è letto sui giornali e le riviste più o meno seriosi, più o meno accorsati.

         Il primo approccio, anzi, l'impatto con uno scritto di Mack Smith l'ho avuto, mio malgrado, nei miei ormai lontani anni verdi allorché, per prepararmi ad affrontare un esame di storia presso l'Università degli Studi di Lecce, l'odierna Unisalento, ho dovuto sobbarcarmi alla lettura, ovviamente approfondita e organica, della Storia d'Italia dal 1861 al 1958, edita dalla Casa Editrice Laterza di Bari.

         Devo subito affermare che le prime pagine del saggio mi colpirono favorevolmente: l'aria che vi si respirava era fresca, il periodare accattivante, il lessico pertinente ma innovativo e, quasi, scintillante; il tutto, forse, merito della traduzione non pedante e neppure asettica, men che meno noiosa. Ma, man mano che mi inoltravo nella lettura, notavo, al termine delle pagine dense, fitte, infinite, come una specie di retrogusto che mi lasciava una indistinta sorta di pastosità repulsiva che mi portava a formulare considerazioni non sempre ortodosse nei confronti dell'Autore; considerazioni che nulla avevano da spartire con un giudizio critico onesto e spassionato, tale da meritare una esternazione corretta e persuasiva.

         La mente aveva già formulato il proprio parere e, in seguito, pur avendo letto altri testi di Mack Smith, l'opinione non era affatto cambiata: devo dire come essa, al contrario, si sia ulteriormente rafforzata affermando senza tema di essere smentita, che l'intera opera dello storico inglese sia un immenso, sconfinato, leviatanico gossip che in Italia è possibile solo paragonare agli scritti di Indro Montanelli e alla sua prosa immediata, sì, ma, in sostanza, populistica, demagogica, a tratti brevi, semplicistica.

         Agli inizi degli anni Cinquanta del '900, quasi a rinnovare i fasti dei romanzoni d'appendice della fine del secolo precedente, apparvero delle narrazioni a puntate che si caratterizzavano per il taglio decisamente antiborbonico non sempre ingiustificato, non sempre becero, ma coscientemente virato all'impatto immediato con il pubblico dei lettori.

         Alla Carolina Invernizio, per essere diretti nell'espressione!

         Tra di essi, occupava, nelle preferenze dei miei, che si dedicavano a quelle letture, sulla scia di altri testi più remoti come Il ponte dei sospiri e La congiura di San Marco, nei lunghi, tediosi, pomeriggi invernali, lo sconfinato romanzo che recava come titolo Vita ribelle, di un tal Ugo Montiglio, pubblicato in Milano, nel 1953, dalla tipografia Matti & C. per conto della Casa Editrice Moderna, innervato di ben 192 capitoli per 3072 pagine, compreso l'indice. Ecco, è alla prosa e alle argomentazioni di questo trabordante fumettone che mi venne così, spontaneamente, di paragonare, nei miei anni giovanili ormai, ahimè, sempre più lontani, i lavori di Mack Smith e tutto l'armamentario che lo supportava. Il giudizio, comunque, non è cambiato nel tempo. Lui, lo storico inglese, antropologicamente incapace di comprendere appieno le istanze più intime e profonde di un popolo dalla facies convintamente solare e titolare di una storia mediterranea orgogliosamente identitaria, ha pienamente goduto di quella fama che gli applausi di sovrabbondanti servi italiani gli hanno attribuito nel corso degli anni. Lui, appagato di questi omaggi, si è lasciato, con astuta compiacenza, vezzeggiare. Tanto da permettersi il lusso di irridere la famiglia reale italiana: i Savoia, cioè, bollandoli come folkloristici e poco intelligenti. I Savoia, che sono tali, sin da prima dell'anno Mille; sin da prima che apparisse sul proscenio della storia del Vecchio Continente quell'Umberto Biancamano che dovette la sua eterea, algente qualifica al lapsus calami di un anonimo, sbadato amanuense.

         Lui, Mack Smith, abituato ai vizi e alle tare mentali degli Hannòver – leggere per credere le vicende di vita del re Giorgio III (1738-1820), le performance viziose di Giorgio IV (1762-1839) e l'amore consolatorio di Vittoria (1819-1901), la longeva regina, imperatrice delle Indie con il suo personale stalliere; adesso che le fanfare, da ultimo, si sono zittite – i quali poi, al tempo della cosiddetta Prima Guerra Mondiale, per sentirsi ancora più inglesi, si vollero trasformare in Windsor, e come tali tutt'ora regnano, non poteva capire l'animus di una famiglia reale e di un popolo, quello italiano, che nulla ha da spartire con la storia della cosiddetta perfida Albione. Ai Windsor, ora, si può applicare quella specie di mordace epigramma che il poeta neoclassico Vincenzo Monti rivolse al Foscolo in risposta alla somma ingiuria “del gran traduttor dei traduttor d'Omero”:

        

                                      Questo è il Foscolo di pel rosso detto

                                      sì falso che falsò fino se stesso

                                      quando in Ugo cangiò ser Nicoletto;

                                      guarda la borsa se ti vien d'appresso.

 

Ciò che, appunto, fecero gli Hannòver allorché si cangiarono in Windsor.

Di tutto questo, però, chiedo venia ai lettori!

         Ogni mia parola, credo, possa al momento incarnare il migliore epitaffio non solo per gli Hannòver-Windsor, bensì anche e soprattutto per Mack Smith stesso, un maldicente, anzi, come ci si esprimeva in epoca medievale, un malparliero che, della malevolenza sistematica ha fatto la cifra più autentica e consona alla propria ricerca storiografica.

 

 

 

Tags:
denis mack smithstoria d'italia dal 1861 al 1958





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