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Culture
Festival di Venezia, al Lido i profughi del dissidente cinese Ai Ai Weiwei

di Andrea Cianferoni

Dopo aver sfidato e denunciato per anni le violazioni dei diritti umani del governo cinese, il regista e attivista Ai Weiwei partecipa oggi in concorso alla mostra del Cinema dopo essere stato già ospite della Biennale di Venezia nelle passate edizioni. Ai Weiwei, figlio a sua volta di un artista deportato con tutta la famiglia negli anni più duri del maoismo, e perseguitato a sua volta dall’attuale dirigenza del paese, arriva al Lido con Human Flow, un film già definito da molti un “salutare pugno nello stomaco”. In questo documentario, realizzato con 600 interviste (ci sono almeno 11 direttori della fotografia tra cui Christopher Doyle) Ai Weiwei con la sua piccola troupe visita 40 campi profughi sparsi in 20 nazioni, tra cui Giordania, Germania, Turchia Bangladesh, l’Africa subsahariana e naturalmente l’Italia, da lui definita in conferenza stampa “l’unico Paese che abbia affrontato seriamente e con umanità il problema dei flussi migratori, anche per il suo background culturale profondamente diverso da altri Paesi europei”. L’obiettivo della macchina da presa di Ai Weiwei, che nel corso del suo tour mondiale ha realizzato 600 interviste, e quasi mille ore di riprese, si spinge fino all’estremo ovest, al confine tra Messico e Stati Uniti, lungo quel muro di confine tanto evocato da Donald Trump. Le immagini riprendono campi profughi, barconi strapieni e carovane nei deserti, muri da scavalcare, filo spinato, accampamenti, organizzazioni no profit, tutte realtà che il regista dissidente cinese conosce bene per esperienza personale. Non è un caso che Ai Weiwei sia presente in diverse scene, alcune riprese addirittura con il proprio iphone (da cui la non alta risoluzioni di alcune immagini) mentre si taglia i capelli in un campo profughi, mentre tratta per l’acquisto della frutta, mentre scambia due parole con dei profughi, oppure mentre si fa un selfie con un cartello con scritto “Ai Weiwei #withTheMigrants”. Il docu-film è una mappatura dettagliata e agghiacciante, degli esodi biblici in atto sul nostro pianeta, realizzata filmando intere popolazioni costrette a lasciare, per guerra, fame e persecuzioni, la propria terra e le proprie case. Un’opera indirizzata - sostiene il regista - "a tutti quelli che hanno la fortuna di vivere in pace. Perché anche la loro pace è una situazione temporanea".  Altro film, non in concorso ma nella sezione Classici Documentari, è “L'ordine delle cose” del padovano Andrea Segre, che sceglie di raccontare il problema dell'immigrazione, tra politica, coscienza individuale ed empatia reciproca, ponendosi domande su possibili scenari futuri. Il film prodotto da Jolefilm con Rai Cinema, racconta la storia di Corrado – interpretato da Paolo Pierobon – un funzionario del ministero degli interni che ha la delega per le missioni internazionali sui flussi migratori. Il Governo italiano lo sceglie per affrontare il problema dei viaggi illegali dalla Libia verso l’Italia. L’uomo, insieme ad alcuni colleghi, si troverà invischiato con malviventi, interessi politici poco trasparenti e loschi affari legati ai  centri di detenzione. L’incontro con una donna somala, anch’essa rifugiata in attesa di ricongiungimento con il marito, minerà le sue certezze ponendolo in una profonda crisi di coscienza. La domanda che pone alla sua coscienza è se seguire le direttive istituzionali, bloccando quel traffico, oppure se garantire il rispetto dei diritti umani.

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