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Culture
Guccini narrato nelle pagine di "Fra la Via Emilia e il west"

di Raffaello Carabini

 

Francesco Guccini, il decano dei cantautori italiani, sta per tagliare il traguardo delle 80 primavere. Da anni vive ritirato in un cascinale di Pàvana, sull’Appennino Toscano, in provincia di Pistoia, e non registra dischi ormai da sette anni, chiude la lista L’ultima Thule. Continua invece a scrivere libri, in partnership con Loriano Macchiavelli oppure da solo, thriller pervasi da uno stupefatto realismo magico oppure ricordi autobiografici ammantati di meraviglia. “Posso fare a meno delle canzoni e della chitarra, ma non della lettura”, dice.

Nonostante questo il Maestrone, ormai quasi cieco, continua a essere una personalità che desta interesse, un “padre nobile” un po’ burbero ma benefico di questi anni difficili, che i giornali spesso tirano per la giacchetta a commentare gli avvenimenti di oggi, in particolare le elezioni prossime nella sua Emilia (è nato a Modena nel 1940) che molti vorrebbero decisive. “Oggi temo soprattutto la paura che leggo sulla faccia della gente”, afferma. “Siamo un Paese impaurito. Stanco, stremato. Questo mi spaventa davvero.”

Lui dice la sua, ricorda come “mio padre, che fu internato in un lager nazista, non è mai venuto a un mio concerto, voleva un figlio giornalista oppure storico” e persino l’amore giovanile per Eloise, una ragazza americana, poi diventata senatrice negli USA, che “poteva finire meglio”. Soprattutto afferma: “non ho mai voluto incidere sulle coscienze”, ma tutti sanno che le sue canzoni, da “La locomotiva” a “Eskimo”, da “L’avvelenata” a “Libera nos Domine”, hanno stimolato, se non proprio forgiato, l’impegno civile di una generazione o due, quella del 68 in primis e in parte anche quella del 77.

La sua storia e la sua vita sono raccontati da Paolo Talanca, critico musicale che si laureò con una tesi su Guccini, Gozzano e Montale, nel libro Fra la Via Emilia e il west (Hoepli, pgg. 145, € 17,90) in maniera brillante e pressoché esaustiva. Scrive nella sua bella e dotta prefazione Gianni Mura, “un gucciniano della prima ora, avvinto e convinto ma monco”: “Talanca ha raccontato così in profondità Francesco da sconsigliare a chiunque di avventurarsi sullo stesso terreno”. Una biografia sui generis fatta di vita, opere, pensieri, canzoni, radici, poetica, che però non ne affronta la veste di scrittore. Un viaggio in nove tappe (più due extra) dettato dai luoghi fondamentali della sua storia, Pàvana, Modena, Bologna, ancora Pàvana. Ma anche l’America, prima sognata e amata, poi visitata e odiata. E persino la Bisanzio di uno dei suoi brani più belli, magica e simbolica.

Tra aneddoti gustosi – ad esempio la rinuncia al posto nell’Equipe 84 per frequentare l’università che non finì mai – e approfondimenti critici, che partono dalla coniderazione che Guccini ha saputo fondere l’epica dei cantautori americani con la sensibilità di quelli francesi, mediando il tutto con l’influenza di poeti italiani come Pasolini e Montale, le pagine scorrono veloci, senza tedio, ricordando la forza di brani anche meno nelle orecchie di tutti (citiamo nel mucchio “Autogrill” e la sua unica canzone dedicata a un amore vissuto, “Vorrei”)  e il rapporto continuo del Maestrone con la terra, intesa come mondo contadino e le sue regole.

Terminano la lettura di questo veloce volume, che ha come sottotitolo Francesco Guccini: le radici, i luoghi, la poetica, una manciata di ricordi e considerazioni di amici, colleghi cantautori e critici, insieme a una ben strutturata intervista. Le sue ultime parole? “Le canzoni vengono per conto loro, quando han voglia di venire. Non è che mi metta lì e dica: “Oggi devo scrivere, aspetto un’idea”. E così io non è che mi metto lì: non mi vengono più, basta.”

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