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Culture
I 60 anni del Festival dei Due Mondi di Spoleto

Ad un angolo di un tetto, di una torre o di un campanile c’è la luna. Ovunque, e Spoleto, luogo magico di fantasia e di arte, diventa ancora più suggestiva con questa installazione luminosa di Giancarlo Neri, che con sessanta globi luminosi reinventa la luna. Per le stradine tantissimi giovani attori, che poco prima erano sul palcoscenico e che rappresentano al meglio il fermento culturale di questi anni che ha permesso al teatro di entrare nelle scelte di questi ragazzi che affrontano una vita difficile pur di diventare attori, e che in questo Festival, vivono una stagione felice ed effervescente con interscambi culturali vivaci.

Il grande genio di Robert Wilson, ne raccoglie molti nel raffinato “Hamletmachine” di Heiner Muller, liberamente ispirato all’Amleto di Shakespeare, dove oltre che regista è anche scenografo e curatore delle luci, ed i giovani interpreti sono gli alunni del terzo anno dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Si muovono secondo ritmi e scansioni definite, ognuno col proprio personaggio che appare nell’immagine di fondo. Tre donne vestite anni ’30, che con le unghie lunghissime graffiano il tavolo, il danzatore vestito d’oro che scandisce l’alternanza delle scene per poi fermarsi in una plastica immobilità, i due giovani uomini uguali nell’abbigliamento ma con l’interpretazione diversa degli stessi gesti, e tutti gli altri che si muovono  in una ossessione ripetitiva e rendono complessa una previsione di ciò che accadrà in palcoscenico, mentre si succedono le distorsioni sonore. Frutto di una lunga collaborazione iniziata nel 1977, la Hamletmachine di Wilson fu definita “il miglior spettacolo di sempre” della sua intera carriera da Muller, per l’incredibile e innovativo impianto illuminotecnico e visivo e per la quasi totale assenza di interpretazione scenica che crea un rapporto di purezza e di empatia con il pubblico.

Due personaggi, un’opera di ironica unicità ed una regista di stile. Emma Dante firma “La Scortecata”, liberamente tratta da lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Le due sorelle ormai vecchie nella solitudine, nelle illusioni, nelle speranze sono interpretate da Salvatore D’onofrio e Carmine Maringola. Inguardabili nella goffaggine delle vesti e nella mascolinità dei movimenti, ma con una sottile ironia che rende amabile il testo e risibile la loro disperazione. Le sorelle nella vaghezza dell’illusione, si succhiano un dito per renderlo così liscio da ingannare il re che ne prenderà una come sposa, per scoprirne l’indomani la tragica vecchiezza. Scene molto belle, immagini stilizzate create da questa regista all’apice del successo, che dopo premi infiniti, regie grandiose ed una attività in ascesa continua, termina l’opera con la scena della sorella che sta per scorticare l’altra alla ricerca di una carne più giovane, come ultima e amara speranza. Nel buio, il coltello alzato blocca il respiro, perché ha un linguaggio disperato.

“Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello, trova in Geppy Gleijesis, un regista attento ed un interprete fantastico. Parlare di un travestito è complesso per non cadere nello scontato, parlarne di due in un quartiere gay dove qualcuno uccide, ancora di più. L’altro interprete è il figlio Lorenzo, con una interpretazione disperata e graffiante che sottolinea ulteriormente quella del padre, pacata e discorsiva  nella ricerca del dettaglio e delle piccole cose che tratteggiano un giorno come tanti in una casa come tante. Ma qui c’è una realtà diversa, fatta di una solitudine profonda in cui questo uomo travestito da donna, nel paradosso della cura di se stesso e nel dettaglio maniacale, aspetta da mesi un uomo che non telefona e non arriva. Si prepara per lui, aspetta, cucina per lui, si cambia, si trucca e quando l’ansia dell’altro travestito penetra nella sua casa, perde in maniera irrevocabile la sua partita con l’attesa e presa la pistola si spara in bocca, E’ lui/lei quindi, che uccideva gli altri gay mettendo sul corpo cinque rose rosse, quelle che ha sparso su di se prima di morire. La natura più vera di chi vive così emerge, mentre la disperazione per la delusione amorosa di chi si credeva accettato, costerna e giustifica l’efferatezza di chi uccide chi è simile a se stesso.

Entrano negli spazi privati e personali di ognuno i concerti di ogni giorno, le rappresentazioni importanti, le sperimentazioni teatrali con i giovani attori del “Progetto Accademia” ed i registi europei. In luoghi incredibili per bellezza e storia, i grandi nomi della cultura, la musica di Fiorella Mannoia, il balletto di Roberto Bolle ed il concerto finale con per la prima volta il Maestro Muti, incantano tutti gli amanti del bello e dell’Arte. Si continua a venire a Spoleto, per un appuntamento imperdibile e soprattutto, indimenticabile.

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