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Culture
Intelligenza, contrordine: non siamo più stupidi. Lo studio

Intelligenza — È noto come le lingue degli Inuit—gli eschimesi—contengano un’estrema abbondanza di parole per descrivere le tipologie e le condizioni della neve. Alla stessa maniera, la lingua italiana è molto ricca di termini descrittivi dell’intelligenza umana, specialmente della sua mancanza: stupido, stolto, grullo, cretino, idiota, citrullo, sciocco, fesso, ebete, scimunito, ottuso, imbecille, babbeo, scemo, tonto e via offendendo per arrivare all’elegante minus habens. Forse è che in Italia nevica poco... Da almeno un secolo—da quando si misura—il quoziente intellettivo medio della popolazione umana è stato in continuo aumento, un fenomeno noto come l’effetto Flynn, dal nome dello studioso che l’ha prima notato.

La crescita media è stata di circa tre punti ogni decennio, portando ad esempio gli Usa ad un incremento superiore ai 13 punti di QI tra il 1938 e il 1984. L’intensità dell’aumento variava, ma il trend era ovunque positivo. Il miglioramento dell’intelligenza in tutti i paesi e tutte le culture, almeno secondo una misura limitata ma comunque largamente accettata come il QI, è stato attribuito in via ipotetica a diversi fattori —a una migliore alimentazione, alla crescita della scolarizzazione e anche a una maggiore capacità di risolvere problemi logici ed astratti, più frequenti nell'ambiente moderno.

Ebbene, dall’inizio del nuovo Millennio il trend si è invertito: stiamo diventando—al ritmo di 7-10 punti di QI al secolo—più stupidi, anche se per ora la tendenza positiva sembra proseguire laddove la media nazionale del quoziente è ancora bassa. Con le conferme dell’inversione, emerse una decina d’anni fa, è nata la fiera delle possibili spiegazioni, partendo da una sorprendente ipotesi darwiniana—”evolviamo verso la stupidità perché le donne più intelligenti fanno meno figli”—per arrivare a ogni tipo di critica sociale: telefonini e videogiochi, pornografia, droghe leggere, la scuola in declino, l’analfabetismo di ritorno, il consumismo e la pubblicità, la carne e l’olio di palma—chi più ne ha, più ne mette.

Ora un’equipe del King’s College di Londra, guidata dal neuropsicologo Robin Morris, ha dimostrato l’esistenza di un altro meccanismo, per certi versi consolante: l’invecchiamento della popolazione a causa dell’accresciuta attesa di vita. Le misure convenzionali dell’intelligenza dipendono in genere da aspetti di funzionamento della memoria—e mentre gli anziani non sono necessariamente meno intelligenti dei più giovani, con l’età tende a ridursi la capacità della cosiddetta “memoria di lavoro”—la “working memory” degli anglofoni—mentre regge bene la memoria a breve, quella “attiva”. Partendo dall’osservazione che negli ultimi decenni sia molto aumentata la misurazione del QI degli ultrasessantenni, il team di Morris è andato a vedere come i test d’intelligenza misurano i due tipi di memoria, trovando in sostanza che mentre si rivela un declino generalizzato della memoria di lavoro nella popolazione, la parte del quoziente intellettivo che dipende dalla memoria attiva continua a crescere. Quand’è così—e il risultato è criticato da chi preferisce spiegazioni più apocalittiche e dal più alto valore “morale”—il declino dell’intelligenza umana parrebbe andare dunque a braccetto col fatto che viviamo meglio e più a lungo. In teoria, e con l’intelligenza che ci rimane, potremmo scegliere di restare mediamente più smart. Basterebbe morire prima.

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