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Culture
Lagioia's karma, così si trasforma il Salone del Libro di Torino. Intervista

di Davide Grittani

Chiedere a un pugliese di lasciare il segno sta un po' nelle cose, soprattutto perché i pugliesi lo fanno quasi sempre inconsapevolmente. Quelli bravi direbbero di default. E a Nicola Lagioia - che nella letteratura italiana il segno l'ha scolpito il 2 luglio 2015, vincendo il Premio Strega con il romanzo La ferocia (Einaudi) - veniva chiesto questo: che lasciasse un segno. Fare la differenza nella prima edizione del Salone internazionale del libro di Torino dell'era scissionista, termine che da qualche giorno il PD ha prelevato dal dizionario di Scampia con il beneplacito della galassia editoriale italiana. Già, perché quella che si è consumata ormai diversi mesi fa è stata una vera e propria scissione. Innanzi tutto dal buon senso e dalla ragione, in secondo luogo una scissione tra saloni. Tra Torino (tradizione, forza, competenza, fascino) e Milano (innovazione, ripartenza, promessa, al tempo stesso incognita). Lo strappo ha partorito due saloni dell'Editoria, e a Nicola Lagioia veniva chiesto - attraverso il delicato e faticoso incarico di direttore - di fare in modo che la fila dei pentiti (per uno strappo obiettivamente privo di argomenti) facesse il giro dell'isolato. Oggi, a tre mesi dal Salone di Torino, il segno lasciato dallo scrittore pugliese è già evidente: un solco profondo e largo, tra il Salone decotto che in molti davano per morto e sepolto e il Salone dei gourmet a cui nessuno adesso vuol mancare. 

Caro direttore, un passo indietro. Fino alla scissione. Era evitabile? Che idea si è fatto? E alla fine ha vinto Milano, ha perso Torino, o è stato un pareggio?

Non sono stato parte in causa di tutta la faccenda, e mi pare che in un ​Paese in cui si legge poco creare una frattura nel mondo dell'editoria non sia una cosa saggia. Credo ci siano margini per ricostruire: se il dialogo non lo portano i libri, chi potrà farlo? Sull'evitabilità di certe crisi, ho pochi dubbi: quando c'è una rottura che danneggia tutti, significa solo che, nel confronto, le parti contrapposte non sono riuscite a tirare fuori il meglio da sé, o una delle due era troppo aggressiva. Non entro nel merito perché, come ho detto, non ero al tavolo (saltato) delle trattative, non era giusto che ci fossi (non sono un editore), e giudicare la condotta altrui è sempre troppo facile. Ognuno avrà avuto delle ragioni da far valere. Detto questo, superare la crisi dei missili di Cuba, a suo tempo, mi pare sia stata un'impresa un tantino più complicata. Certe volte è destinato a lasciare il segno chi ha il coraggio di spogliarsi della propria arroganza per armarsi subito dopo di pazienza, umiltà e buona volontà. Detto questo, il Salone a Torino esiste da trent'anni, qui dentro è passata e continua a passare il meglio della letteratura e dell'editoria mondiale, si tratta di un patrimonio nazionale, oltre che cittadino, amato da lettori e scrittori di tutte le età, e aver desiderato (per chi l'ha fatto) che l'Italia e la città perdessero una manifestazione tanto bella è meschino, triste, e non porta neanche bene a chi fa questi pensieri. Mai augurarsi il male altrui. Per fortuna, rispetto alla ​volta scorsa, il tavolo è stato ribaltato. Quest'anno a Torino rischiano (se mai può essere un rischio) di arrivare più editori rispetto all'anno scorso, per non parlare degli scrittori, degli artisti, dei grandi protagonisti della cultura italiana e internazionale che accenderanno magnificamente la città per cinque giorni, a maggio.
 

Due Saloni nel Paese d'Europa che legge meno? E in cui, ogni anno, si pubblicano circa 60mila titoli. ​Non rischiamo di apparire autorerenziali?

Due Saloni possono coesistere a patto che siano fatti bene entrambi, non creino troppo stress agli editori, e soprattutto si inseriscano in un quadro di strategie condivise dall'intero settore: bisognerebbe farlo per provare a superare i problemi di cui lei parla, non tanto il numero dei titoli (in molti paesi il rapporto tra titoli pubblicati e lettori è simile) ma dei lettori.
 

Che Salone sarà, il primo diretto da Nicola Lagioia? ​Ospiti, Nobel, Pulitzer e tutto ciò che non ha detto in conferenza stampa?

Un libro che scavalca un muro, nell'anno dell'elezione di Trump e della Brexit: direi che il manifesto di Gipi rende molto l'idea. Sarà un Salone in cui si parlerà del mondo in  cui viviamo. Non si tratterà di una semplice vetrina, non avrà nulla di oleografico. Il tentativo di profondità di sguardo mi pare stia riscuotendo un certo riscontro tra scrittori e artisti. Forse non è un caso che che ad "aprire" il Salone ci sia il premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievic, il premio Pulitzer per la poesia Philip Schultz, quella grande musicista che è Patti Smith, due veri innovatori della forma romanzo e racconto come Ben Lerner e Charles D'Ambrosio, un disegnatore come Igort... Se si tiene conto che questa è solo una parte del "pre-Salone", vi lascio immaginare cosa accadrà tra il 18 e il 22 maggio. Ci sarà un approfondimento sugli Stati Uniti, una sezione chiamata "Another side of America" per esplorare le contraddizioni di un paese dove, nello stesso anno, Bob Dylan ha vinto il Nobel per la letteratura e Donald Trump è diventato presidente. Si parlerà di pensiero femminile, dell'idea di Europa (che magari viene prima di quella di UE), di Italia, di ciò che accade in Medio Oriente, di cibo non come reality show, ma come cultura, salute, politica, economia, motivo per il quale il nostro partner in questo ambito è Slow Food. E poi ovviamente, per celebrare in modo degno il trentennale, chi avrà la fortuna di essere a Torino a maggio sarà parte di una lunga festa mobile. Ci saranno concerti, reading, spettacoli. Cinque giorni di libri, amore, musica, bellezza e voglia di far circolare, magari anche far confliggere tra loro idee importanti. Insomma, Torino è il luogo in cui ritrovarsi tutti a maggio per essere al centro di qualcosa di importante. Lo ripeto: le città – basta leggere Dickens o Dostoevskij o Balzac per ricordarsene – non sono vetrine, ma auspicabilmente luoghi in cui fare esperienza.

Che attenzioni rivolgerete al lettore? Possibile ipotizzare l'utopia un Salone senza biglietto d'ingresso, un Salone in cui le risorse impegnate da un utente all'ingresso del Lingotto possano invece essere destinate all'acquisto di libri?

Il biglietto costa poco, e – per ciò che vedranno, ascolteranno, vivranno i visitatori – vale molto di più. L'assoluta gratuità non sarebbe un'utopia, perché vorrebbe dire non riconoscere il lavoro delle tante persone che stanno facendo le notti, sacrificando da mesi i week end, per regalare a chi sarà con noi un Salone memorabile. Io ci metto ogni giorno la faccia, ma se si pensa a quale e quanta energia, passione e spirito di sacrificio ci stanno mettendo tanti miei compagni di lavoro (mi considero davvero un primus inter pares), allora si capisce che pochi euro per entrare nel mondo del Salone, nella città del libro, possono andar bene.

Lei dirige le attività culturali e il programma del Salone. Vista la sua riservatezza, sarà lecito attendersi un Salone in cui gli appuntamenti di un certo spessore non si ​sovrappongono (ottenendo l'effetto di annullarsi a vicenda)? Sarà possibile proporsi all'utenza con un ordine tematico più rispettoso degli autori e meno delle esigenze degli Editori?

Sissignore. 

Quanto tempo sta sottraendo il Salone alla sua vita di scrittore? Sente la mancanza della libertà di prendersi un po' meno sul serio, oppure per adesso è immerso nella sua nuova missione: realizzare un Salone dell'anno zero, il primo Salone dell'era "scissionista".

Uno scrittore non può dire la propria sul mondo ogni giorno sui giornali e nei libri, e poi tirarsi indietro quando gli si chiede – cioè gli si dà la possibilità – di fare qualcosa per provare a migliorare la situazione intorno a sé. Tirarsi indietro, alla mia età, sarebbe stato un segno di senescenza precoce. Bisogna prendersi dei rischi nella vita, e la cosa più comoda, per me, sarebbe stata restare a casa a godermi i diritti d'autore. L'importante è non cambiare passo rispetto a ciò che si è stati fino al giorno prima, non tradirsi, prendersi la responsabilità senza sentirne troppo il peso (ogni volta che la responsabilità rischia di frenare gli slanci, mi guardo allo specchio, sospiro, prendo uno Spasmomen somatico, penso a chi nella vita ha portato con naturalezza ben altri pesi, e riparto rinfrancato), e così, se ha seguito un po' che cosa siamo riusciti a combinare fino ad ora, riconoscerà che di libertà ce ne stiamo prendendo parecchie. La cosa interessante è che funziona. Il coraggio, e un po' di follia (nessun riferimento a Steve Jobs, parlo della follia a cui alludeva Josif Brodskij proprio presentando il primo Salone di Torino, trent'anni fa) aprono molte porte. Comunque, glielo dico con simpatia: proprio pensando a Broskij, la parola "anno zero" e "scissionista" la lascerei agli spettacoli televisivi. Pensi che uno scrittore europeo, un gigante della letteratura mondiale, mi ha detto che quest'anno verrà a Torino anche perché è il trentesimo anno, e lui è legato affettivamente a questa città e a questa manifestazione: era fidanzato la prima volta che ci venne, esaltato dall'uso saltuario dello psilocybe cubensis la seconda, divorziato la terza, risposato la quarta, e adesso sta vivendo in modo molto combattivo l'età matura. Ma ci sono anche editori che sono "nati" a Torino, nel senso che qui hanno avuto la loro prima grande possibilità di presentarsi al mondo, e ora tornano felicemente cresciuti nel luogo che tanto bene gli ha portato e continuerà a portare.

Quanta Puglia (la Sua Puglia) ci sarà in questo Salone? E quanto estero invece ospiterete?

Con la Puglia ci sono contatti per degli spazi importanti al Salone. Di estero ce ne sarà molto. Avremo scrittori, artisti, filosofi, musicisti, registi, editori, scout, agenti letterari provenienti da: Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Stati Uniti, Canada, Russia, Mozambico, Nigeria, Finlandia, Georgia, Giappone, Turichia, Egitto, Albania, Grecia... la lista è in continuo aggiornamento.

I piccoli e medi editori stanno tutti con Torino. C'è qualcuno che dice che la qualità si sia schierata dalla vostra parte? Lei che ne pensa?

Penso che non ci sia alcuna relazione obbligata tra qualità e dimensioni. Una piccola casa editrice può pubblicare libri pessimi o eccellenti, e lo stesso naturalmente vale per una major. La qualità sarà dalla nostra se saremo bravi a selezionarla.

Ci saranno spazi di collaborazione con Tempo di Libri (il Salone dell'Editoria di Milano, NdR), oppure convivrete nonostante tutto?

Siamo talmente impegnati, sia noi a Torino che loro a Rho, che non credo ci sarà il tempo. Ovviamente tutti i miei auguri e tutto il bene a Chiara Valerio e ai suoi collaboratori. Io, di mio, la sera, quando esco dalla Fondazione, saluto i miei magnifici compagni di lavoro – a volte tiriamo fino a tardi, ma nella fatica troviamo anche il modo di divertirci, a volte ridiamo come matti anche per scaricare la tensione davanti ai mille problemi che dobbiamo risolvere ogni giorno –, poi però, dopo gli abbracci, faccio di solito una lunga passeggiata per Torino, da solo, a piedi, sul limitare della notte, mi guardo intorno, sovrappongo la città reale a quella del libro, che per me è ancora più reale, e mi sembra che un altro mattoncino sia stato messo a posto.

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