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Culture
Leo. Il romanzo sul fenomeni dei "ritirati sociali" (Hikikomori in Giappone)

I "ritirati sociali" sono un piccolo esercito che in Italia raggiunge le 120.000 unità, fenomeno noto in Giappone con il nome di Hikikomori. Giovani che decidono di isolarsi dalla realtà e di rinchiudersi nella loro stanza, creandosi un mondo parallelo fatto di virtualità, internet, social network e TV, cercando di sviare in questo modo i tanti problemi causati dal confronto con i propri coetanei, con l’altro sesso e, in genere, con una società considerata ostile. Così fa Leo, il protagonista dell'omonimo romanzo di Daniela Piras (casa editrice Talos).

"Una storia nata dal mio incontro personale con alcune persone e dai racconti di alcune amiche su altri casi simili. C'era un filo rosso che le legava e da qui ho deciso di scrivere il romanzo", spiega l'autrice ad Affaritaliani.it. Un approccio "empirico", che poi si è legato al fenomeno riconosciuto a livello mondiale. Tanti i punti in comune: dalla 'puzza' come arma di difesa per tenere lontani gli altri al rapporto conflittuale con la madre alle esperienze di bullismo nell'infanzia e preadolescenza.

Così è nata anche la collaborazione con due massimi esperti in Italia del fenomeno dei ritirati sociali, Matteo Lancini e Antonio Piotti, che hanno scritto la prefazione. Matteo Lancini è psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro di Milano e dell’AGIPPsA (Associazione Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza); Antonio Piotti è psicoterapeuta e insegna Prevenzione delle condotte auto lesive e del tentato suicidio adolescenziale presso l’alta scuola di psicoterapia psicoanalitica dell’adolescenza e del giovane adulto A.R.P.AdMinotauro di Milano. Un libro che fa riflettere sulle fragilità dei giovani in un’epoca in cui ostentare e apparire al meglio pare essere diventato un dovere sociale.


 
 

LEO
 

La trama

Leo è uno studente universitario fuori sede, un ragazzo introverso e con false sicurezze allo stesso tempo, la sua vita scorre monotona e tranquilla mentre, parallelamente, la sua mente crea un mondo incantato ricco di avvenimenti, in totale contrasto con la realtà. Il viaggio introspettivo racconta la vita del protagonista che scorre su due binari che non si incontrano mai; tre episodi in particolare (un femminicidio, una rapina e la scoperta di un cadavere) scuotono la sua esistenza e lo portano a mettere in discussione il suo ristretto mondo. Tra un’allucinazione e una presa di coscienza, Leo si troverà catapultato, suo malgrado, nel mondo degli adulti.

La scrittrice

Daniela Piras, nata a Sassari nel 1977, manifesta già da piccola l'interesse verso la scrittura. Partecipa a diversi concorsi letterari. Laureata in Scienze della Comunicazione e Giornalismo, ha la passione per i viaggi. Autrice di "Parole sugli alberi", "Village" e “Crash”.

www.talosedizioni.it

www.danielapiras.blog

 

SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO DEL PRIMO CAPITOLO DI "LEO"



Capitolo 1. La facoltà



I segni sui polpacci, lasciati dalle calze di cotone bianco, evidenziavano il contrasto tra il pallore della gamba e il rosso del sangue quasi rappreso all’interno dei capillari. Leo si massaggiò la pelle maledicendo i genitori che gli avevano comprato quelle calze di cotone. «Le calze ideali da mettere con le scarpe da tennis.». Avevano detto così, proprio. Ma dove stesse scritto che con le scarpe da tennis ci vanno le calze di cotone bianco di spugna, lui non lo aveva mai capito. Non li sopportava proprio più, quei due. Lo trattavano come un bambino, e lui bambino non lo era più da tempo. Si sfilò le scarpe e le spinse con un calcio sotto al letto, tolse con delicatezza quasi chirurgica le calze e spinse sotto al letto pure quelle, poi si allungò sotto la scrivania. Afferrò le Nike nere di tela per il laccio, le trascinò a sé, diede loro una veloce ripulita dall’eccesso di polvere e le indossò, senza calze, dopodiché si accomodò sulla vecchia sedia impagliata e accese il computer. Erano già le undici e mezza e non aveva ancora iniziato a studiare.

La mattina era praticamente andata ed era nervoso, come ogni volta che qualcosa o qualcuno lo distoglieva da quella che era la sua giornata tipo. Quel giorno si era dovuto svegliare prima del previsto per andare in facoltà a iscriversi alla sessione d’esami di settembre. L’anno accademico era appena iniziato, ma Leo era già incredibilmente stanco. Odiava la facoltà. Odiava quell’edificio, sia dal punto di vista urbanistico, sia per ciò che rappresentava socialmente, ossia la sperimentazione architettonica, mal riuscita, di un grosso centro polivalente, che doveva fungere, nel progetto originario, da vero e proprio campus. La struttura era stata progettata su tre livelli: al piano terra ospitava le aule, le biblioteche e le segreterie, al primo piano c’erano gli alloggi degli studenti e al secondo piano le mense, i bar, una sala interattiva con postazioni internet e un angolo relax, con poltrone ergonomiche massaggianti. Il progetto, molto ambizioso, aveva offerto un’ottima opportunità per numerosi speculatori e, di fatto, rappresentava un fallimento sotto tutti i punti di vista: solo il primo piano veniva utilizzato per lo scopo previsto, gli altri erano autogestiti dagli studenti, che ne avevano fatto la loro seconda casa.

Lì si ritrovavano per studiare, chiacchierare e vedere film nella sala interattiva mancata, dove avevano piazzato un videoproiettore di fortuna e allineato alcune poltrone ergonomiche non funzionanti. Dall’esterno, lo stabile sembrava tutto, tranne che un’università. Aveva l’aspetto di un centro commerciale in via di costruzione. Di lato, come una lampada spenta, si trovava una gru con il carico sospeso. Socialmente, quell’istituzione significava per Leo ciò che odiava di più al mondo: la folla. Non sopportava l’idea di doverci mettere piede.

L’unica cosa che l’aveva portato a iscriversi a quell’università era l’interesse morboso che coltivava per gli insetti, fin da quando era bambino. Per dedicarsi alla sua più grande passione, aveva dovuto vincere molte paure, prima tra tutte quella della gente, e l’ateneo era un punto d’aggregazione troppo affollato. Ogni volta che doveva andarci, veniva assalito da diecimila sintomi diversi: ansia, tachicardia, mal di pancia e, soprattutto, insofferenza. Una forte insofferenza lo colpiva non appena varcata la soglia del portone principale: le persone di tutte le età che camminavano in entrambi i sensi del grande corridoio sembravano volessero buttarglisi addosso, una folla oceanica che gli si riversava sopra come una valanga. Chi percorreva lo stesso suo senso pareva quasi spingerlo ad accelerare il passo, facendogli muovere i piedi come un automa cui è stata impostata la massima velocità.

Chi, invece, percorreva il senso di marcia contrario era come se si divertisse a ostacolare, volutamente e con perfidia, il suo cammino. Leo farfugliava di continuo parole come «scusi», «permesso» e, ogni tanto, abbozzava un confuso saluto, indirizzato a caso e alternato a finti colpi di tosse. In quella bolgia si sentiva sempre fuori posto e non riusciva a far niente per mascherarlo. L’aveva come tatuato sulla fronte: “Non sono come voi”. Più cercava di mimetizzarsi e confondersi in mezzo agli altri studenti, più la sua diversità saltava fuori, sfacciatamente. Lui era lì solo per l’amore che nutriva verso i suoi insetti, tutto il resto erano distrazioni, fastidi, seccature e burocrazie di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Era riuscito a limitare i danni fino a quando aveva potuto, ossia fino al momento in cui i suoi genitori si erano occupati di tutte le procedure burocratiche, l’iscrizione, il pagamento delle tasse e l’acquisto dei libri. Questo sino al terzo anno di università. Alla soglia dei ventidue anni, però, gli avevano detto basta. Ricordava ancora quella discussione, come fosse avvenuta il giorno prima.

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