"Toscani maledetti", l'antologia letteraria con il meglio degli autori nati tra i '70 e gli '80 - Affaritaliani.it

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"Toscani maledetti", l'antologia letteraria con il meglio degli autori nati tra i '70 e gli '80

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Se c’è una terra d’elezione del racconto, questa è senza ombra di dubbio la Toscana, nella quale, con Boccaccio, il racconto occidentale moderno è nato e dove, nel secolo scorso, esso ha raggiunto alcuni degli esiti più alti in ambito italiano (Papini, Tozzi, Palazzeschi, Pea, Tobino). Questo libro si propone di raccogliere una scelta di racconti inediti composti dagli autori più significativi e originali della nuova narrativa toscana. Si tratta di narratrici e narratori nati tra la prima metà degli anni Settanta e la seconda metà degli anni Ottanta, molto giovani ma non esordienti, anzi già noti al pubblico nazionale, che si sono distinti, fra l’altro, per la capacità di raccontare in modo singolare varie aree del territorio toscano. Firenze con il fortunato romanzo di Vanni Santoni, Se fossi fuoco, arderei Firenze (Laterza) Prato e i suoi dintorni (sfondo dell’opera prima di Ilaria Mavilla, Miradar, edita da Feltrinelli); Pisa, la città di Luca Ricci, unanimemente considerato uno dei più originali narratori contemporanei, Forte dei Marmi, rivisitata in chiave sarcastica da Fabio Genovesi nel suo libro Morte dei marmi (Laterza), Tutti i nomi evocati, insieme ad altri, hanno contribuito a questa antologia narrativa toscana, l’unica del suo genere, mostrando come l’arte toscana del racconto non solo non si è esaurita con la fine del Novecento, ma anzi, all’alba del nuovo Millennio, appare più viva che mai.

Gli autori: Simona Baldanzi (Fazi editore, Elliot, Ediesse); Diego Bertelli (Ed. della Meridiana); Cosimo Calamini (Garzanti); Silvia Dai Pra (Laterza, Minimum Fax, Gremese); Francesco D’Isa (Nottetempo); Fabio Genovesi (Mondadori, Laterza); Simone Ghelli (CaratteriMobili, Il Foglio); Ilaria Giannini (Gaffi); Pietro Grossi (Mondadori, Sellerio Editore); Emiliano Gucci (Feltrinelli, Guanda, Elliott); Gregorio Magini (Round Robin); Francesca Matteoni (Transeuropa); Ilaria Mavilla (Feltrinelli); Valerio Nardoni (e/o); Sacha Naspini (Elliott, Perdisa Pop); Alessandro Raveggi (Transeuropa, Effigie, Le Lettere); Luca Ricci (Einaudi, Laterza); Vanni Santoni (Laterza, Feltrinelli, :duepunti); Marco Simonelli (Leconte); Flavia Piccinni (Fazi, Rizzoli, Sperling&Kupfer); Marco Ro- velli (Bur, Feltrinelli, Laterza, Barbès).

 

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di Raoul Bruni

Se oggi pensiamo alla Toscana, la prima immagine che ci viene in mente è quella di un luogo di vacanza: miniera ineguagliabile di risorse artistiche, questa regione non cessa mai di attirare infinite schiere di turisti di tutto il mondo, che continuano, numerosissimi, a visitarla in ogni stagione dell’anno.

Tuttavia il grandioso passato della Toscana rischia, non da oggi, di metterne in ombra il presente: cosa si nasconde dietro le oleografie turistiche dei baedeker? Non si corre forse il rischio di ridurre una regione come questa a una collezione di cartoline illustrate?

Esattamente un secolo fa, nel memorabile Discorso di Firenze, Giovanni Papini, che di toscanità se ne intendeva, affermava che il capoluogo toscano si era ormai trasformato da culla in «una delle tombe più vermicose dell’arte» (G. Papini, Filosofia e letteratura, Mondadori, 1961). Se è vero, come è vero, che la provocazione futurista di Papini conserva ancora una qualche attualità, la Toscana e il suo capoluogo appaiono come luoghi di vacanza anche nell’altra accezione del termine, cioè vacanza come vacuità, mancanza. Mancanza, per limitarci all’ambito più strettamente letterario, di un clima propizio agli scrittori, agli editori (purtroppo in Toscana non esistono quasi più grandi case editrici) e, più in generale, alle risorse che favoriscono l’emergere di una nuova scena letteraria, e in modo particolare narrativa. Cosicché la terra dove – non dimentichiamolo – era nata, con Boccaccio (di cui quest’anno ricorre il settimo centenario della nascita), la narrativa moderna, rischia di trasformarsi in una waste land della letteratura.

Del resto, dall’antico primato la letteratura toscana è precipitata da tempo in una posizione marginale e ciò ha inciso (e incide tuttora) pesantemente sulla fortuna editoriale e giornalistica degli scrittori, ed in particolare dei narratori, di questa regione. Né è un caso che alcuni dei narratori toscani più noti si siano ormai trasferiti in pianta stabile in altre città con un più influente e prestigioso milieu letterario, come ad esempio Roma e Milano. Già alla fine degli anni Ottanta, Luigi Baldacci, grande critico fiorentino non certo sospettabile di inclinazioni campanilistiche, si chiedeva «che cosa abbiano i toscani rispetto ai cittadini delle altre regioni; certo» – aggiungeva – «hanno una difficoltà in più, che è quella di non saper trovare un ascolto benevolo da parte di una cultura dominante che privilegia le voci periferiche specialmente la tradizione lombarda, da Dossi a Gadda, e ostenta un’indifferenza pianificata per tutti quei fatti e quegli istituti linguistici che rappresenterebbero – ed è appunto il caso della Toscana – la norma e la regola, e quindi l’inespressività di contro alla sperimentazione e all’infrazione» (L. Baldacci, Ottocento come noi, Rizzoli, 2003). Che molti dei grandi narratori toscani del Novecento siano stati a lungo sottovalutati è un dato di fatto difficilmente contestabile. Basterà ricordare i nomi di due grandi irregolari come Giovanni Papini e Curzio Malaparte, i quali, per ragioni in primo luogo ideologiche, sono stati per lungo tempo rimossi da ogni canone della letteratura italiana. Né si dimentichi che a rilanciarli contribuirono in modo decisivo non i critici italiani, ma due autori stranieri: Borges rilanciò Papini, introducendo negli anni Settanta una sua silloge di racconti fantastici (G. Papini, Lo specchio che fugge, F. M. Ricci, 1974); mentre per la recente ristampa delle opere di Malaparte presso Adelphi fu una sollecitazione importante il saggio dedicato allo scrittore pratese da Milan Kundera nel suo recente volume Un incontro (Adelphi, 2009). Ma insieme a questi due casi paradigmatici, si potrebbero citare molti altri autori toscani il cui valore non è stato ancora pienamente riconosciuto, da Enrico Pea a Romano Bilenchi. D’altronde lo stesso Tozzi, la cui grandezza non viene ormai più messa in discussione da nessuno, stenta ancora ad essere considerato un classico da affiancare agli altri due, assai più fortunati, colossi del nostro Novecento (Pirandello e Svevo), mentre un narratore un tempo celeberrimo come Vasco Pratolini gode di sempre minore considerazione sia presso i critici che presso i lettori. C’è poi il caso (per giungere più a ridosso dei nostri anni) di uno scrittore poliedrico e interessante come il livornese Carlo Coccioli (Livorno, 1920 ‒ Città del Messico, 2003), tanto poco letto da noi quanto apprezzato e tradotto all’estero (si ricordi anche l’interessante parabola biografica di Coccioli, il quale negli anni Cinquanta si trasferì in Messico, dove divenne anche un autorevole editorialista per le più prestigiose testate giornalistiche di quel Paese).

 

Ma qual è lo stato attuale della narrativa toscana? Stando all’esiguo spazio generalmente concesso agli scrittori di questa regione nelle pagine culturali dei quotidiani nazionali (del resto, anche nelle antologie dedicate alla produzione letteraria del nuovo millennio finora uscite i toscani presenti sono pochissimi), la narrativa toscana non sembrerebbe certo godere di ottime condizioni di salute. In realtà, invece, un censimento dei narratori attivi nella nostra regione darebbe esiti inaspettati, facendo rilevare la presenza, se non di una nouvelle vague letteraria, di un gruppo assai folto e diversificato di voci sia maschili sia femminili che si sono di recente affacciate nell’universo della letteratura, non di rado sotto l’egida di marchi editoriali prestigiosi (basta dare uno sguardo alla bibliografia di molti degli autori qui presenti, ai quali se ne potrebbero senz’altro aggiungere altri). Se, com’è ovvio, quantità non significa qualità, è impossibile negare che la scena letteraria toscana sia oggi tutt’altro che morta.

Questa antologia si propone di fornire uno spaccato, se non esaustivo, esemplare della narrativa toscana di oggi, colmando un’evidente lacuna critica ed editoriale. Se, infatti, non mancano pregevoli antologie dedicate alla letteratura toscana dei secoli scorsi, e specialmente all’Ottocento (dalla classica silloge I toscani dell’Ottocento curata da Pietro Pancrazi nel 1924, a quelle più recenti approntate rispettivamente da Giorgio De Rienzo ed Enrico Ghidetti), assai rari sono invece i florilegi di ambito più contemporaneo (una delle poche, lodevoli eccezioni è costituita dall’antologia, del 2009, Scrittori pratesi del Novecento, curata da Ernestina Pellegrini e Francesco Gurrieri per Polistampa); mentre sarebbe addirittura impossibile indicare un solo repertorio antologico di un qualche rilievo dedicato alla letteratura toscana del nuovo millennio.

In generale, le antologie che documentano le nuove scene narrative regionali non sono molte; l’editoria tende piuttosto a privilegiare antologie di carattere tematico, incentrate perlopiù su argomenti imposti dalle mode del momento. Eppure puntare sulla geografia – in linea con un filone critico sempre più fiorente che rimonta agli studi pionieristici di Carlo Dionisotti – può forse aiutare a conferire a una scelta antologica di ambito contemporaneo una base più coerente meno effimera.

I ventuno racconti, perlopiù inediti, che compongono la presente antologia sono stati composti da altrettanti autori nati tra il 1969 e 1986, e dunque quasi tutti sotto i quarant’anni. Buona parte dei narratori coinvolti sono ormai ben noti; altri, invece, hanno appena esordito e si stanno ancora formando; ci sono inoltre tre autori (Diego Bertelli, Francesca Matteoni e Marco Simonelli) più conosciuti come poeti che come narratori, i quali hanno trasportato nella narrazione il loro bagaglio di esperienze liriche (Simonelli, in particolare, non rinuncia neanche al verso, ma, come aveva già fatto nelle sue raccolte poetiche, apre la forma poetica all’affabulazione narrativa). Potrebbe destare qualche perplessità il fatto che in questa antologia abbiano avuto poco spazio gli autori, diciamo così, di genere (in Toscana, peraltro, non mancano certamente giallisti di grande fortuna: da Vichi a Malvaldi); la scelta non è dovuta ad un pregiudizio intrinseco nei riguardi di generi letterari come il giallo o il noir, bensì al fatto che, spesso, chi coltiva questi generi segue una formula chiusa, adeguandosi passivamente a una voga editoriale dettata dal mercato. Che poi ci siano delle eccezioni non vi è dubbio: si vedano ad esempio due noir inconsueti come Capelli blu (edizioni e/o, 2012) e Miradar (Feltrinelli, 2012), pubblicati rispettivamente da Valerio Nardoni e Ilaria Mavilla, i quali hanno entrambi contribuito a questa antologia.

Come si vedrà, la Toscana fa quasi sempre capolino nelle pagine che seguono: non solo Firenze, ma anche Livorno, Lucca, Pisa, Massa, Carrara, la Maremma, la Versilia, ecc. Un elemento comune a molta della nuova narrativa toscana è rappresentato infatti dal forte rapporto con il territorio: un rapporto certamente conflittuale e ambivalente ma, nondimeno, decisivo per la prospettiva della narrazione. Paradigmatico il caso del pratese Edoardo Nesi (che non abbiamo coinvolto in questa antologia solo per ragioni anagrafiche), che ha pubblicato un fortunato volume Storia della mia gente (Bompiani, 2010) in cui ripercorre le storie della sua terra. Passando agli autori di questa antologia, Vanni Santoni (penso soprattutto, oltre che al testo qui incluso, al romanzo Se fossi fuoco, arderei Firenze, uscito per Laterza nel 2011) racconta una Firenze sotterranea e inquieta, teatro di avvelenate commedie umane; quella stessa Firenze nella quale si ambientano i racconti taglienti e non convenzionali di Cosimo Calamini, Francesco D’Isa, Emiliano Gucci e Gregorio Magini, il quale, nel Giacallo, tenta anche di mimare il vernacolo fiorentino, costellando la sua prosa di fiorentinismi. Con Marco Rovelli siamo proiettati all’interno di quel vivacissimo microcosmo antropologico che orbita tra Massa, Carrara e le Alpi Apuane, esplorato, con un’ottica diversa, anche da Silvia Dai Pra’. Fabio Genovesi, in certi suoi fortunati libri, ci ha mostrato un’altra Versilia, assai remota da quella mecca della villeggiatura che siamo abituati a conoscere; e anche Ilaria Giannini, nel romanzo I provinciali (Gaffi, 2012), ha raccontato le zone meno paludate di questa località. Sacha Naspini narra la Maremma con piglio espressionistico, senza minimamente edulcorarne i lati selvaggi e violenti; mentre Flavia Piccinni (pugliese di nascita, ma toscana d’adozione) mette in luce alcune tipiche peculiarità sociali e antropologiche di Lucca (mi riferisco anche al romanzo, ambientato in questa stessa città, Lo sbaglio, edito da Rizzoli nel 2011).

Gli autori sopra citati sono indubbiamente molto diversi tra loro, ma ciò nondimeno condividono una certa modalità di sguardo sul territorio: il tentativo di andare oltre il cliché turistico, che si proietta su Firenze, come sulle altre località toscane, per cogliere il cuore pulsante dei luoghi, che tutte le guide omettono sistematicamente di rilevare. Si tratta di scritture che raccontano, ognuna a loro modo, il rimosso delle oleografie turistiche, rifiutando nettamente ogni retorica della celebrazione. E in questo senso si riallacciano all’archetipo della toscanità, se è vero ciò che scrisse Mario Luzi: «Se […] rivado a Soffici, Papini, a Cecchi o a Campana o ad altri che più l’hanno affermata come tale, la toscanità non ostenta alcuna albagia, non esibisce alcun pavoneggiamento. I grandi titoli della gloria domestica sono messi da parte: quello che la parola toscanità evoca è piuttosto sobrietà, elementarità, concretezza; qualcosa di spoglio, di arioso da cominciare e non da celebrare» (M. Luzi, Toscana mater, Interlinea, 2004). Se esiste una toscanità (e non è un caso che l’unico sostantivo corrispettivo non artificioso che si potrebbe citare, nell’ambito delle regioni italiane, sia quello della sicilianità), essa consiste esattamente in questa sobrietà/elementarità. Un carattere inscritto nella stessa morfologia paesaggistica della ragione, come spiegano le illuminanti pagine toscane del Viaggio in Italia di Guido Piovene: «La bellezza toscana è una bellezza di rigore, di perfezione, talvolta di ascetismo, sotto l’aspetto della grazia. A differenza della collina veneta, languida e fantasiosa, quella toscana si direbbe disegnata da un artista cosciente, che non lasci nulla al caso, e aborra il superfluo, anche se poi, a lavoro finito, cosparge di gentili ornati la fondamentale secchezza della sua concezione» (G. Piovene, Viaggio in Italia, Baldini & Castoldi, 1993).

Questa tendenza alla sobrietà anticelebrativa, di cui scriveva Luzi (Piovene parla, con una formula non troppo dissimile, di «visione antiretorica della natura umana»), si riflette anche nello stile della maggior parte degli scrittori qui antologizzati, i quali privilegiano, con poche eccezioni, un registro asciutto e disadorno, senza ricami aulicizzanti. Penso per esempio a uno dei giovani narratori toscani più affermati in ambito nazionale, come il fiorentino Pietro Grossi, a proposito del quale Filippo La Porta ha parlato di «semplicità narrativa quasi miracolosa». Oppure al pisano Luca Ricci – tra i pochissimi toscani under quaranta unanimemente riconosciuti e apprezzati dalla critica – il quale non è certamente un autore semplice, ma impronta nondimeno la sua scrittura alla massima asciuttezza possibile, sia sotto il profilo della lingua («Una lingua cauterizzata al massimo, ridotta al grado zero», come l’ha definita Andrea Cortellessa), sia sotto l’aspetto della descrizione dei personaggi (dei quali si lasciano volutamente nell’ombra molti aspetti) e delle ambientazioni (spesso, come nel caso del racconto qui incluso, non esplicitate).

Sarebbe inoltre interessante verificare se gli autori antologizzati abbiano tenuto presente o meno una certa tradizione letteraria toscana. Fermo restando che, in generale, gli scrittori delle ultime generazioni si sono formati in uno scenario globale, dove, peraltro, la letteratura convive con altre forme espressive, quali la musica pop, il cinema o i cartoons, si potrebbero, nondimeno, indicare alcuni autori toscani che hanno avuto una notevole incidenza sugli scrittori più giovani. Tra questi c’è sicuramente un altro irregolare sottovalutato: Luciano Bianciardi, a cui guarda, per esempio, Simone Ghelli; si ricordi inoltre che Bianciardi aveva esordito, nel lontano 1956, con I minatori della Maremma (scritto a quattro mani con Carlo Cassola), che può considerarsi, per molti aspetti, l’archetipo di un certo filone letterario non-fiction oggi più vivo che mai (a questo filone potrebbe ricondursi anche il racconto di Simona Baldanzi, basato su un grave incidente occorso presso uno stabilimento siderurgico di Piombino). Tra gli autori toscani più influenti, ricorderei, inoltre, almeno Antonio Tabucchi e Sandro Veronesi. Di quest’ultimo, in particolare, citerei un romanzo tra i meno noti, Venite venite B-52 (Feltrinelli, 1995), che anticipa, per certi aspetti, le procedure ardite e pynchoniane delle narrazioni di Alessandro Raveggi: quest’ultimo, per la sua sintassi esorbitante, sembra apparentemente lontano dal paradigma di toscanità sopra tratteggiato, eppure anch’egli condivide lo spirito caustico tipico dei toscani, evidente soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi. Stilare un bilancio consuntivo della giovane scena letteraria toscana non è certo facile: alcuni autori sono già notevolmente maturi, altri invece, specie quelli che hanno esordito più recentemente, lasciano trasparire ancora alcuni limiti: limiti, beninteso, che sono in sostanza gli stessi della nuova narrativa italiana in genere. Il che non deve però impedire di rilevare, accanto a tali limiti, notevoli margini di crescita, soprattutto laddove, come nel caso dei giovani autori qui antologizzati, si tenti di percorrere un itinerario letterario autenticamente personale, al di fuori dei canoni dominanti. Questo distaccarsi dalle vie più battute è forse da ricondursi al timbro caratteriale più riconoscibile dei toscani: quell’irriducibile spirito critico e dissacrante per cui, come scrisse Malaparte, i toscani sembrano essere «nati proprio e soltanto per dire quel che agli altri non piace sia detto» (C. Malaparte, Maledetti toscani, Mondadori, 1997). E di voci, maledettamente toscane, che si incarichino di dire ciò che agli altri è sgradito, c’è più che mai bisogno: a maggior ragione in un mondo, quale quello dell’odierna narrativa italiana, che si fa troppo spesso condizionare dall’omologazione e dal conformismo imperanti.

(continua in libreria)