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Maometto amava i gatti, il suo micio si chiamava "Muezza"
Gatto nero

Maometto amava i gatti — L’Islam ricorda che il micio preferito del Profeta si chiamava “Muezza”. Un famoso hadîth—gli hadîth sono detti e fatti attribuiti a Maometto, ma non compresi nel Corano— racconta che un giorno, dovendo vestirsi in fretta per raggiungere la Moschea, scoprì il gatto addormentato proprio sull’abito da preghiera che gli serviva. Piuttosto che disturbare il sonno del felino, liberò la veste tagliando via la manica intrappolata con un paio di forbici.

Il gatto è l’animale d’affezione per eccellenza nel mondo Islamico, specialmente per la pulizia e la cura di sé che esibisce. Il Corano è piuttosto generoso con gli animali. Gli attribuisce la capacità di far parte dell’umma—la comunità dei credenti—e di onorare il Profeta. Verranno “accolti dal loro Signore alla fine” (Corano 6:38). In altre parole, in contrasto con il Cristianesimo gli riconosce esplicitamente il possesso di un’anima.

Il cane non ha la stessa fortuna del gatto nella teologia islamica. Negli oltre duecento versi del Corano che citano animali, solo tre toccano i canidi e riguardano soprattutto la loro utilità per l’uomo, nella caccia e nella pastorizia. A differenza dei gatti, pregiati ospiti ovunque, i cani non devono entrare nelle case. Sono haram—ritualmente impuri, anche se non maligni in sé.

È soprattutto la bava di questi animali la fonte dell’impurità e ogni contaminazione va immediatamente rimossa con ripetuti lavaggi. Non è strettamente vietato tenersi un cane, ma la troppa familiarità andrebbe evitata. La visione negativa dei cani discende non tanto dal Corano ma dagli hadîth, la via attraverso la quale gli usi tradizionali sono rientrati nell’Islam dopo la sua fondazione—un po’ come la tradizione cristiana ha riadattato i riti, costumi e festività pagani strada facendo.

La Bibbia invece, pur non concedendogli un’anima, cita molte volte i cani—e non dice una sola parola sui gatti. Il Cristianesimo difatti gli ha sempre guardati con sospetto. Girano di notte quando gli altri dormono, hanno degli allarmanti occhi luminosi, potrebbero essere dei servi di Satana.

Il sospetto diventò guerra aperta nella prima metà del XIII secolo con l’emissione di un’incauta Bolla— Vox in Rama—da parte di Papa Gregorio IX che associò in maniera un po’ troppo spettacolare i gatti ai riti satanici che si supponevano praticati dagli eretici Catari.

Già nel secolo precedente un Dottore della Chiesa, il Beato Alano di Lilla, arrivò a supporre che il termine cataro—spesso applicato indiscriminatamente a ogni tipo di eretico—derivasse dal latino catus, cioè gatto, perché “si dice che adorino il diavolo sotto le sembianze di un gatto". Divenne consuetudine —specialmente in Francia, dove resistette fino ai primi anni dell’800—l’uso del lancio rituale dei gatti dal campanile nella seconda settimana della Quaresima, in segno di rifiuto del Male.

Per quanto non piaccia a nessuna delle due parti ammetterlo, le due grandi fedi monoteistiche—l’Islam e il Cristianesimo—sono chiaramente imparentate: una vicinanza conservata nelle vesti tradizionali di frati e suore, nella segregazione femminile tra clausura e harem, nelle usanze sepolcrali e perfino dietetiche (anche la Bibbia cristiana vieta in più punti il consumo della carne di maiale, ma la regola è disattesa) e molte altre cose ancora. Sui cani e i gatti però il contrasto è perfetto.

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