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Odio e psicoanalisi

Filosofia sui Navigli, 21 aprile 2013

Gestione - e funzioni - dell’Odio nel lavoro psicoanalitico

di Daniela Scotto di Fasano 

 

L’odio è un concetto poco esplorato, scomodo da pensare, tanto più se riferito a noi stessi, ai bambini e alle funzioni genitoriali/terapeutiche. Ecco perché indagare tali aspetti costituisce, come nota Nielsen (2011), “una sfida per la psicoanalisi”.

Infatti, l’odio risulta spesso impossibile da ammettere come costitutivo della nostra psiche, sebbene, come ha mostrato Freud (1915; Jeammet, 1989; Nielsen, 2011): “L’odio compare con la scoperta dell’oggetto, [con cui è all’inizio tutt’uno: perciò] l’oggetto è scoperto nell’odio. Il fatto di rendersi conto che l’oggetto non è una parte di sé e che, di conseguenza, non è a nostra disposizione, genera, in modo del tutto naturale, l’odio” (Green, 1995, 317-318). Infatti, il bambino deve potersi abituare a tollerare la frustrazione connessa all’altro, come mostra un esempio tratto dall’osservazione di un neonato che dovette essere bruscamente svezzato per la diminuzione della montata lattea della madre. Egli, di fronte alla frustrazione, ricorse per alcuni mesi a un comportamento illusoriamente autosufficiente: spingeva in avanti tra le labbra la lingua arrotolata, in modo da riempirsi la bocca, cosa che otteneva anche spingendosi in fondo alla gola tutt’e due i pollici e succhiandoli avidamente; in entrambi i casi, però, dando comunque l’impressione di restare terribilmente depresso.

A volte però sembrava entrare in contatto con qualcosa e parlava a se stesso con un dialogo che aveva la stessa intonazione di voce della madre quando gli parlava e di lui quando le rispondeva. In queste occasioni, in cui pareva avere un dialogo con la madre interiorizzata, non sembrava più depresso e desisteva dal tentativo di consolarsi con un falso oggetto (Ciccone, Lhopital 1991).

Insomma, dobbiamo lentamente abituarci al fatto che l’altro non è né parte di noi né a nostra disposizione per non dover continuare a odiarlo e a illuderci di poterne fare a meno sviluppando una dipendenza patologica da falsi oggetti sempre a nostra disposizione e, quindi, non frustranti (lingua e pollici per il neonato, oppure sigarette, alcool, eroina, e così via).

Come dice Rosenfeld (1971), gli aspetti distruttivi inconsci possono presentarsi: “mascherati come onnipotentemente benevoli, promettendogli soluzioni rapide per tutti i suoi problemi. Queste false promesse mirano a rendere il sé normale dipendente, anche in modo tossicomanico, dal sé onnipotente, e ad attirare le parti sane normali dentro questa struttura delirante per imprigionarvele.” (268)

Scrive Hinshelwood: “Poco dopo la fine della prima guerra mondiale, Freud (1920) riconobbe […] l’evidenza di un “pozzo profondo”  di  distruttività, presente  negli  esseri  umani” (1989, 303).

Francesconi e Zighetti (2004) sottolineano l’aspetto “perturbante” della pulsione di morte riferendosi alla considerazione freudiana (1929) secondo la quale “l’uomo non è un creatura mansueta, […] capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo.” (599).

Mi chiedo a tale proposito se non si possa ipotizzare che la difficoltà con cui la psicoanalisi si è occupata dei nostri sentimenti peggiori non “tragga origine dall’incapacità narcisistica di accettarli come un dato di fatto dell’accadere psichico” (Francesconi, Zighetti, 2004, 52).

Io credo di si: infatti, c’è odio ovunque ci sia manifestazione autentica di vita. Ma la sua esistenza in ambiti relazionali idealizzati (tra genitori e figli, tra psicoanalista e pazienti) è bandita.

Eppure, “I bambini sono oggetto dell’odio dei loro genitori e quindi i rapporti tra genitori e figli possono essere soffusi di odio ed essere caratterizzati da difese che evitino la consapevolezza dell’odio e delle sue manifestazioni omicide” (Blum, 1997, 21). Pensiamo, a tale proposito, a quanti miti mettono in scena figlicidi: Agamennone, Clitennestra, Medea, Laio, il padre di Edipo…

Come ha scritto Winnicott, “La madre odia il bambino prima che il bambino odi la madre” (1947, 241).

Altrettanto, i bambini odiano i propri genitori: “Quando il pianto o lo strillare o il sentirsi soffocato dall’ira non impedisce al bambino di articolare le parole, egli pronuncia comuni espressioni verbali dirette di odio” (Blum, 1997, 22).

Nel pensiero di Melanie Klein “L’idea di una pulsione aggressiva, attiva già in tenera età, è motivo ricorrente[…], fino a offrire l’immagine di un bambino in preda a violenti moti sadici” (Fornaro, Stella, 2001, 165): scriveva, nel 1932, la Klein: “E’ un’idea terrificante per non dire incredibile per la nostra mentalità, quella di un bambino dai sei ai dodici mesi, che tenti di distruggere la madre con tutti i mezzi che le sue tendenze sadiche gli mettono a disposizione, con i denti, le unghie, gli escrementi e con tutto il proprio corpo trasformato fantasticamente in ogni sorta di armi letali. Io, per personale esperienza, so quanto sia difficile ammettere che tali idee ripugnanti rispondono a verità.” (Klein, 1932, 184).

Il Veldt

Quanto le affermazioni di Melanie Klein risultino a tutt’oggi più che pertinenti a descrivere come agli adulti risulti problematico ammettere che fin dalla più tenera età si possano provare odio e impulsi sadici è confermato da un episodio personale.

Eravamo stati richiesti, Francesconi ed io, di organizzare una serie di incontri presso una Scuola Elementare per riflettere con genitori e insegnanti da un punto di vista psicoanalitico sull’aggressività infantile.

Prima di avviare gli incontri, suggerimmo alla Direzione Didattica e al Consiglio d’Istituto la lettura del racconto di Ray Bradbury Il Veldt. Si tratta di un racconto effettivamente inquietante, che fa toccare con mano la realtà delle fantasie sadiche infantili.

Una realtà così inquietante da far scomparire agli occhi dei membri della Direzione Didattica e del Consiglio d’Istituto il fatto che comunque Il Veldt era, in fondo, solo un racconto di fantascienza: esso era, ai loro occhi, “un testo impresentabile poiché nessun bambino potrebbe essere così mostruosamente cattivo”….

Fu di conseguenza rifiutata l’idea di proporlo come pre-testo sul quale lavorare con i genitori e gli insegnanti ai quali il ciclo di incontri era destinato: troppo veri i mostri della mente per dar loro spazio d’ascolto?

I protagonisti del Veldt sono due bambini, Peter e Wendy (!), dei quali i genitori per mesi si disinteressano, trovando più comodo che passino la maggior parte del loro tempo ‘fuori dai piedi’, nella stanza dei giochi, affidati alle ‘cure’ di una televisione-bambinaia, che permetteva di materializzare nella nursery, proiettandoli sulle pareti, i paesaggi che i bambini desideravano. A un certo punto, però, il padre, messo in allarme da un amico psicologo (McClean), si rende conto del fatto che i figli hanno sviluppato una dipendenza patologica dallo strumento, dal quale non riescono più a stare lontani. Padre e madre decidono dunque di rinunciare alle comodità materiali (Bion) della loro casa meccanica per tornare a occuparsi in prima persona dei loro bambini. Ma è troppo tardi: “Tu hai lasciato che la televisione si sostituisse a te e a tua moglie nell’affetto dei tuoi bambini. Questa stanza è diventata per loro padre e madre, nella loro vita è più importante dei loro genitori reali. E adesso arrivi e gliela vuoi portar via. Non mi stupisce che qui l’atmosfera sia carica d’odio”. (Bradbury, 1950, 477). I bambini, di fronte alla minaccia di venirne privati, reagiscono: la stanza dei giochi, che la consapevolezza tardiva genitoriale vorrebbe chiudere, proietta il paesaggio della torrida savana africana, dove una coppia di leoni sta acquattata in attesa della preda. I genitori, che hanno concesso un’ultima volta di nursery a Peter e Wendy, cadono nel tranello teso loro dai bambini: restano intrappolati nella stanza dei giochi. Dove “udirono i rumori. I leoni venivano verso di loro da tre lati, frusciando tra l’erba gialla e secca del Veldt, un brontolio sordo nella gola. I leoni. George Hadley guardò sua moglie e si volse con lei a guardare le fiere che si avvicinavano adagio, acquattate nell’erba, le code dritte. Il signore e la signora Hadley urlarono” (478).

Quelle descritte da Bradbury sono le “normali”, arcaiche fantasie infantili, ipotizzate per primo da Freud (con il concetto del bebé come piccolo perverso polimorfo) e poi ampiamente e dettagliatamente esplorate da Melanie Klein.

Bradbury le mette in scena, mostrando le inevitabili conseguenze delle situazioni in cui i bambini sono abbandonati a se stessi, privi della protezione di una casa psicologica (Brenman, 1985) offerta dalla mente dei genitori.

Ne abbiamo un’ottima esemplificazione in un’altra opera di fantascienza, Il signore delle mosche, di William Golding 1], dove, come ricorderete, i bambini e i ragazzi abbandonati a se stessi su un’isola deserta scivolano in comportamenti sempre più violenti e arcaici, arrivando all’omicidio in un crescendo delirante e trasudante angoscia. Dove l’odio è scatenato dalla presenza maligna dell’assenza di adulti in grado di fornire protezione e calore.

X. nasce in Russia da una adolescente (il padre è sconosciuto) che tiene con sé il bimbo e la sorellina più piccola per un po’ ma in una condizione di semiabbandono, lasciati a casa soli o affidati a persone di passaggio, fino a che una sorella della madre porta i bambini in ospedale poiché li ha trovati soli e febbricitanti. Nessuno però può o vuole occuparsi di loro e X. e la sorellina vengono inseriti in istituto e dichiarati adottabili.

La mamma si suiciderà un anno dopo e X. ne verrà informato; poi, muore la nonna. I bimbi rimangono in istituto per circa tre anni e mezzo, fino a quando entrambi, da genitori diversi, saranno adottati. X. impara a parlare in italiano in tempi brevissimi e da allora si rifiuta di esprimersi nella sua lingua madre.

I genitori chiedono la consultazione a una collega (dr.ssa Laura Curone), che discute con me il caso in supervisione, perché X. si trasforma all’improvviso da bambino dolcissimo a bambino ingovernabile e violento: la mamma dice alla collega che X. è stato da subito un  bambino incontenibile, ‘un uragano’. Aggiunge che X. non è affezionato ai compagni, lega solo con una bambina. Nel primo colloquio, si presenta come molto adultomorfo: tende la mano alla collega dicendole “Ovviamente tu sei Laura”, aggiunge che sa di essere lì per “parlare della Russia, ovviamente”, e “del fatto che è spesso cattivo

Si entusiasma alla vista del giocattolo dinosauro ma cerca di non darlo a vedere, poi estrae il pongo dalla scatola e, con quello rosso, fa un cuore, che appoggia sul davanzale della finestra dove sta battendo il sole, dicendo che lo vuole far asciugare perché “Si deve indurire”.

Ad entusiasmo malcelato reagisce con il bisogno di indurire il cuore?

Quando la terapeuta gli fa notare che al sole, invece di indurirsi, il pongo si ammorbidirà, sposta il cuore all’ombra e sorride con un viso dolcissimo, suscitando nella collega molta tenerezza: X. in quel momento le sembra un cucciolo solo.

Intanto, il bambino si siede sul divanetto dov’è appoggiata una bambolina neonato, la accarezza, la stringe e la bacia.

È un momento molto emozionante.

La terapeuta dice che “questa bambolina ha ricevuto da lui coccole, forse anche a lui piace riceverne”.

A questo punto, come se fosse stato sorpreso in un momento di debolezza, sbatte la bambolina più volte e si allontana.

 

Al secondo colloquio, X. ha con sé un morbido cane di peluche; sale le scale di corsa precedendo la terapeuta in stanza; come arriva, dice fra sé e sé: “Fammi vedere se è un’altra Laura…. Si, è un’altra Laura..... con gli occhi più cattivi.

La collega si chiede a voce alta “come mai X. teme che ci siano occhi più cattivi che lo attendono, forse perché siamo stati un po’ lontani?”.

X. allora fa dare dal morbido peluche molti baci a una bambolina e, poi, alla collega, la quale osserva che “questo cagnolino è proprio un gran coccolone”.

A questo punto il bambino sembra agitarsi: tappa la bocca al dinosauro con molti giri di nastro adesivo “per impedirgli di urlare”; lo avvolge poi completamente, consumando l’intero rotolo di scotch, e aggiunge: “Solo se diventerà buono lo potrò liberare.... Solo se diventerà buono”.

La collega commenta che “Questo dinosauro pensa di essere proprio un demonio”, allora X. fa una palla con il pongo e la lancia violentemente in giro per la stanza.

La collega osserva che “parlare di un dinosauro cattivo lo mette in ansia”; X. continua a colpire con violenza le pareti con la palla, e sembra terrorizzato quando questa finisce per restare incollata al soffitto.

Si tranquillizza quando la terapeuta riesce a staccarla con la scopa e dice che “vorrebbe dare al dinosauro un volto sorridente”, poi cerca di liberare il dinosauro da tutto lo scotch.

Nel farlo, inizia a scappargli la cacca, che va a fare rifiutando di essere aiutato.

Quando torna, imbratta il pavimento con qualcosa di marrone che ha attaccato alla suola delle scarpe; si spaventa nell’accorgersene, pensa che sia cacca, si tranquillizza solo quando la collega gli fa osservare che “non è cacca, è pongo, si può facilmente rimediare”.

A questo punto, dice: “Certo che sono un bambino fortunato ad avere trovato una casa in Russ…. cioè in Italia..... Mi piace la mia casa d’Italia.... Ovviamente sono molto… molto fortunato.

Poi, aggiunge che si sente preoccupato per S.: “Sai che mia sorella è rimasta là… S. è in Russia e sono preoccupato.... possono capitare cose brutte, molto brutte....”.

 

A terapia avviata, nell’ultima seduta prima delle vacanze estive, X. entra in stanza e dice: “Devo disegnarti un personaggio nuovo… un mutante… un mutante liquido e verde… Sai, a volte sporca l’acqua… perché è sporco”.

Spiega che il mutante è liquido “Perché se è liquido può andare da tutte le parti e nessuno lo può uccidereDovevo portare una pistola... per ucciderlo… la testa mi scoppia… troppe cose… troppe… Adesso ti faccio vedere cosa fa mutante, distrugge perché brucia… non tocca le persone ma le rocce e le pietre.. e le brucia”.

Inizia poi a disegnare un personaggio che chiama Eco: “Eco è un personaggio con delle cuffie che tiene le orecchie chiuse così non sente gli urli che fa”.

Per X., angoscia d’abbandono, terrore senza nome, orrori inenarrabili sono cacca che imbratta e sporca, non pensa che questi drammi possano essere depositati in un contenitore senza che questo non ne risulti danneggiato.

Inoltre, egli sembra credere che se fa trapelare queste angosce all’esterno, esse sarebbero sperimentate da chi le riceve come attacchi intenzionalmente cattivi e, quindi, come colpe, per cui essere punito. È lecito immaginare che X. abbia sperimentato traumi e carenze gravi.

Pertanto, possiamo credere che probabilmente X. è davvero in una certa quota intenzionalmente cattivo, come se per sopravvivere si fosse dovuto trasformare in un mutante rispetto alla propria umanità fisiologica, al punto da non potersi permettere di sentire - nel senso di to feel - i propri urli: per sopravvivere, occorre indurire il cuore, non mostrare di appassionarsi, sferrare un attacco al legame, anche a quello con la propria interiorità.

Nella prima seduta dopo le vacanze, X. si sforza di garantire un recinto per il maiale e si dispera perché non riesce a tenere uniti e in piedi i cubetti con cui ci sta provando, poi, dopo che la collega lo ha aiutato, si impegna a munire il dinosauro di una spessa corazza di pongo.

 

A due mesi dalla ripresa, arriva in seduta agitatissimo, racconta di aver detto scema alla maestra: “Si… certo !! Ovviamente... SCEMA… Sono stufo di quella maestra e di quei genitori.. Me la fanno venire quella rabbia… E ora devo scrivere trenta volte ‘non devo dire scema alla maestra’... Ovviamente… NON VOGLIO PIU’ QUEI GENITORI!

La terapeuta gli dice che immagina “quanto sia stato male, con quella rabbia …”.

X. si stacca con lo sguardo dal gioco che sta facendo (una lotta tra mucca e dinosauro), sembra stupito: “Ma come lo sai ? E’ esattamente così !!”.

Gira per la stanza, sembra eccitato; mormora: “Male... no male… ma sale… sale... sale”.

La collega domanda cosa sale: “La rabbia”.

 

Poi, chiede di andare in bagno, tiene la porta socchiusa e la prega di non avvicinarsi alla porta, perché “sa arrangiarsi da solo”.

Dopo alcuni minuti esce, ha fatto la cacca e ha lasciato il water imbrattato.

Urla: “SEMPRE VOGLIO STARE QUI ..SEMPRE!!!”.

Poi, più calmo: “Devo farti vedere un lupo mannaro alieno… devo farlo un lupo mannaro”.

Inizia a modellare con il pongo marrone: “Proprio così… spaventoso il lupo alieno… ha la bocca che si apre così e anche così”: mima con le mani una bocca che si apre nelle quattro direzioni.

Cerca poi, rompendo la mina di una matita arancione, di fare a questo lupo dei denti conficcando i pezzetti di matita nel pongo. Il risultato è un buffo lupo marrone con una ampia bocca piena di denti; dice: “E’ proprio così… spaventoso… (anche se non ha nulla di spaventoso ) Io lupo alieno… e lui ha poteri magici... può fare tutto quello che vuole... tutto”.

La terapeuta si/gli chiede se “Sarà proprio quello che vuole, fare tutto”.

La sua risposta è: “...Ovviamente... ma non glielo lasciano fare... tutto... Non glielo lasciano fare”.

La collega domanda “Cosa… vorrebbe fare?”, X. dice “Lottare… e sconfiggere il nemico… mordendo con quella bocca

La terapeuta osserva che questo lupo però ha anche un’espressione simpatica… non sembra molto arrabbiato.

Lui: “Non fa paura? Ma è un lupo alieno … Però ovviamente è anche un po’ bravo, e vuole giocare con uomo palla (estrae dalla scatola una palla di pongo di vari colori ) Uomo palla è un amico e con lui girano il mondo”.

Fa volare Lupo alieno e Uomo palla per la stanza. “Adesso arriva un nemico…vero… che li vuole distruggere… Che armi usano? Dimmi te che armi usano!”.

La collega dice: “Mah… Che armi hanno a disposizione?

X.: “Niente, vedi? Adesso non sanno che armi usare… Hanno giocato... e non hanno pensato alle armi... Che stupidi! Anziché pensare alle armi hanno giocato… Stupido lupo alieno… Con i nemici deve prepararsi, non giocare... Stupido lupo alieno…”.

Il tono esprime un profondo scoramento. Come non evocare il ‘sé sconosciuto’ di cui Bion scrive in Cogitations (1996, 318): “Paura e odio = sentimenti potenti e massicci; è probabile quindi che essi attirino l’attenzione sul ‘sé sconosciuto’ (‘soluzione’ prematura e precoce per evitare sentimenti di odio e di paura dell’odio e della paura)”.

Come non temere di tornare ad essere umanamente un po’ buoni un po’ cattivi? Come consentire a se stessi di mollare la guardia? Se si è ovviamente anche un po’ bravo e non solo un lupo alieno; se si rinuncia alla tana protettiva rappresentata dai rifugi della mente (Steiner, 1996), dove ci si deconnette perfino dalla propria interiorità perché decrescono le fantasie paranoiche che fanno dell’Altro solamente un nemico, per uscire ad esplorare, come X. con Uomo palla, il mondo fuori di sé; se il fuori di sé attira e incuriosisce; se si impara ad avere amici e a giocare… Se, se, se… si sopravvive?

Sono domande, quelle di X., che lo potranno condurre, se tutto va bene, a diventare solo un po’ cattivo.

 

Non porsele, invece, lo porterebbe a una totale anaffettività, a un’assoluta mancanza di empatia, all’indifferenza disumana dell’antisociale incallito, che “deve difendere se stesso anche dalla speranza perché sa per esperienza che il dolore di perdere reiteratamente la speranza è insopportabile” (Winnicott, 1984).

Si pone a questo punto “«una domanda. Se, in una fase precoce dell’esistenza, i segni dell’umano sono oggetto di rifiuto traumatico da parte dell’ambiente di cure, ciò comporterà nella psiche una tendenza ad odiare e contrastare gli elementi umani percepiti nel proprio sé e nell’altro.[…] Paradossalmente, in tali aree della mente, il familiare risiede nel deumanizzato» (Di Donna, Bastianini, 2006, 40). Questa tendenza particolare ad odiare si sviluppa per non localizzare dentro di noi la causa o la fonte di sentimenti dolorosi e inquietanti.” (Spezzano, 2006, 40-41).

In tal senso, il riferimento è ai due adolescenti protagonisti di Funny games (Haneke, 1997, 2007): agghiacciante messa in scena di una impossibile umanizzazione? O di una deumanizzazione, di una regressione a stadi arcaici dello sviluppo a seguito di esperienze insopportabili?

In Funny games due ragazzi dall’aria sorridente e innocente, assolutamente normale, mettono in atto senza alcun coinvolgimento emotivo azioni estremamente crudeli e violente ai danni di esseri umani e di animali. La violenza di alcune scene è insopportabile proprio a causa del suo carattere: totalmente, desolatamente anaffettivo e disumano.

Chiunque guardi angosciato mali così terribili, così repellenti, così feroci dovrà riconoscere che costituiscono una tragedia; e se qualcuno li sperimenterà o anche solo li considererà senza angoscia, la sua condizione sarà ancora più tragica, dal momento che rimarrà sereno attraverso la perdita della propria umanità”. (Agostino di Ippona)

Tutti abbiamo presente la vicenda descritta nel film Arancia meccanica [2]: il protagonista vive in una periferia desolata, in un contesto familiare caratterizzato da degrado, povertà, disoccupazione, disgregazione dei legami affettivi, bruttezza, da lotte tra bande dove davvero mors tua è vita mea. Si è identificato in Beethoven, forse in un inconscio anelito a bellezza e etica. All’uscita dal carcere, si ritrova “sfrattato” dalla propria stanza da un giovane pensionante che sembra averlo sostituito anche nel cuore dei genitori nel ruolo di figlio migliore. Nella scena successiva, vaga senza meta per la strada, meditando il suicidio. Ed è arrabbiato, violentemente arrabbiato, in balia di vissuti invidiosi, rancorosi, dolorosi. Certo, distrugge: ma, mi pare, mai insensatamente; piuttosto, disperatamente, mediante una violenza ancora – a mio parere – umana, portando “un attacco contro l’oggetto a causa del suo comportamento frustrante” (Hinshelwood, 1989, 246). Dal punto di vista psicologico una violenza distruttiva ma legata alla rabbia, alla paura vendicativa, alla delusione.

 

Se in Arancia meccanica e nel Veldt la passione espressa è calda, in Funny games la passione espressa è fredda, le azioni pulite, in guanti bianchi (gli stessi che i due ragazzi non tolgono mai): l’atmosfera emotiva è quella di una gelida, asettica sala operatoria.

Nella vicenda descritta in questo film l’attacco è sferrato “allo scopo di preservare l’idealizzazione di Sé, non è semplicemente un attacco contro l’oggetto a causa del suo comportamento frustrante” (Hinshelwood, 1989, 246).

Per Buber possiamo amare solo Gestalt umane, ‘esseri interi’. L’odio, per sua natura, è odio per gli esseri parziali. (37)”.

 

Illuminante, a tale proposito, una citazione da Cogitations di Bion (1992, 142-3) che, per la sua ricchezza e per i nessi che stabilisce con il pensiero neonatale, scelgo di riportare per esteso:

“Il neonato, in tutte le prime fasi della sua vita, è dominato dal principio del piacere. Quindi, nella misura in cui prova piacere, ha tutt’attorno a sé oggetti proto-reali sentiti come reali e vivi. Ma se dovesse sopravvenire del dolore, allora il neonato avrebbe attorno a sé oggetti morti distrutti dal suo odio, che, poiché egli non può tollerare il dolore, [percepirebbe come] non-esistenti. Ma di solito essi continuano ad esistere perché le impressioni sensoriali continuano ad operare. Se l’intolleranza nei confronti di questi oggetti dovesse crescere oltre ad un certo punto, allora il neonato comincerebbe a sferrare attacchi contro l’apparato mentale che lo informa della realtà. […]. L’esistenza degli oggetti reali può essere denegata, ma le impressioni sensoriali persistono […]Il neonato sente, quindi, che gli oggetti reali ora sono entrati con forza dentro [di lui]. La fase successiva, imposta da un’intolleranza ancora più marcata, è la distruzione dell’apparato responsabile della trasformazione delle impressioni sensoriali in materiale adatto per il pensiero […]. Questa distruzione concorre alla sensazione che sono le “cose”, non le parole o le idee, che stanno dentro la personalità.”.

È in  tal senso da intendersi ciò che Bion riassume con il termine stupidità: odio per le emozioni, per la realtà, per la vita stessa.

Di fatto, quando il soggetto ha perduto la possibilità di sperimentare i legami favorevoli: (Bion, 1957, 82) “si sente circondato da minuti legami che, essendo ora impregnati di crudeltà, collegano gli oggetti fra loro in modo crudele”. E laddove “la dipendenza da un oggetto buono esterno non è disponibile o non è riconosciuta, si instaura una relazione tossicomanica con una parte cattiva del sé: la sottomissione alla tirannia” (Meltzer, 1968, 255).

 

In tali circostanze, l’altro va cancellato come umano (splendido, in tal senso, il racconto Sentinella di Frederick Brown!)

Come nota Giovanna Giaconia, che con il trattamento psicoanalitico ha curato nel Carcere minorile di Milano giovani che avevano commesso omicidi, accade, «Nei pazienti che commettono crimini, di notare la presenza inconscia di fantasmi precoci che li possono condurre a agire nel reale attacchi distruttivi, in balia di uno stato della mente arcaico.“Il delitto però – dice - pone un problema molto difficile da affrontare: che riparazione è possibile là dove l’oggetto non è riparabile? Innanzi tutto, non è riparabile l’oggetto esterno, ma poi l’oggetto interno, anche riparato, può permettere di tollerare la colpa? O si potrebbe pensare che un oggetto interno riparato rende ancora più grave la colpa verso l’oggetto esterno distrutto? […] Sulla scorta delle mie osservazioni cliniche, direi che un’evoluzione diviene possibile se il soggetto riesce a perdonare se stesso. Ciò non significa minimizzare o negare il senso di colpa né cancellare la memoria.” (Giaconia, 2004, 203).

 

L’autrice fa, infatti, riferimento al fatto che il trattamento psicoanalitico, per quanto effettuato in detenzione, mette il giovane delinquente nelle condizioni di utilizzare un pensiero meno caratterizzato da elementi arcaici, per cui il senso di colpa perderebbe le caratteristiche urenti di ferita aperta, poiché riguarda un soggetto passato diverso dal soggetto attuale: Io ero colui che ha ucciso ma oggi sono colui che, pur sapendo di poter uccidere, sa trattenersi e non uccidere” (ibidem, 204).

Quando ci viene data ancora una possibilità, il tempo procede all’indietro, il passato ritorna. Allora, di nuovo, si ripercorre quello che portò alla catastrofe. Ma questa volta con una speranza” (Höeg, 1993).

Si tratta di un paradosso: si potrà ammettere di odiare, senza idealizzare se stessi o la natura originariamente ‘buona’ dell’essere umano, poiché si sarà scoperto di potersi trattenere dall’agire il proprio odio compiendo azioni distruttive, avendo potuto sperimentare che il buono può tornare dopo il cattivo e scoprire che tanto si ama quanto si odia, dal momento che odio e amore, Eros e Thanatos, sono inestricabilmente legati.

 

Si tratta di trovare e far trovare il modo di guardare a Sé da un altro vertice, un vertice imprevisto,

per permettere ai soggetti come X. o i pazienti di Giovanna Giaconia, ma, anche, a genitori e a quanti svolgono lavori che coinvolgono affetti e emozioni (come ad esempio curare ed educare, che non a caso da Freud detti mestieri impossibili) a scoprire da vertici imprevisti di provare anche emozioni negative (e non solo amore) e di tollerare l’idea di poter essere non solo amati ma anche odiati.

 

Un’analisi vera

Anche a noi analisti può capitare di provare schegge d’odio per i nostri pazienti e solo se siamo in grado di lavorare in noi stessi i sentimenti di ostilità che nel lavoro psicoterapico, caratterizzato da un alto grado di turbolenza emotiva, non possono non manifestarsi, potremo in seduta evitare atteggiamenti seduttivi o autoritari.

 

Si tratta di essere, nell’intimità, nella solitudine, a volte persino nella sofferenza della propria differenza. Ecco perché l’oggetto nasce nell’odio.

In effetti, si tratta di trasformare mediante la stabilità del legame con l’oggetto (alla nascita il care giver), mediante quindi la fiducia nella continuità di quel legame, l’odio in aggressività, acciocché esso non debba portare a distruzioni vere nel reale.

 

L’odio: riparabile?

Quale vantaggio individuo allora nella possibilità di riflettere e far riflettere – anche i genitori – sul fatto che ci può capitare di provare odio per coloro dei quali ci occupiamo?

Quello di imparare a non idealizzare noi stessi e a gestire esplicite dichiarazioni di odio, come questa fatta da una bambina nel corso di una seduta: “Mi piace quando la mamma sta male” (Pozzi, 2003, 120). E a scoprire che il buono può tornare dopo il cattivo

Come ha scritto Melanie Klein, nel 1935: “A me pare che solo da quando ne sappiamo di più sulla natura e sui contenuti delle prime angosce, nonché sul costante interagire dei vissuti reali con la vita di fantasia, siamo completamente in grado di capire perché il fattore esterno sia tanto importante” (297-325). Se il neonato infatti fa ripetute esperienze di essere capito e consolato, lui stesso sentirà di essere buono.

Bion (1959) ha parlato dell’impossibilità della madre di essere sufficientemente buona a causa dell’odio e dell’invidia del bambino: un bambino di tre anni (Pozzi, 2003), ammette con sollievo i suoi sentimenti omicidi nei confronti del fratellino, cosa che permetterà alla mamma, nella seduta successiva, di confessare con orrore di avere spesso provato lei stessa sentimenti omicidi verso di lui.

 

Peter Pan

L’odio, infatti, può essere della madre per il proprio bambino: Peter Pan entra a vita nell’Isola che non c’è (in inglese, significativamente neverland: mai terra!! Mai terra madre?), dove non ci sono madri per i Bambini smarriti, dove il Coccodrillo, con il suo TicTacTicTac evoca il Tempo nel quale Peter Pan non può entrare… È curioso riflettere sul fatto che in inglese Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1962), può anche essere tradotto come Arancia a orologeria.

Di quale madre è fantasma la Finestra dalle ante chiuse che Peter Pan trova quando rientra da una delle sue scorribande notturne?

Di una madre per la quale è intollerabile che il bebè si distragga da lei, preso da propri giochi e fantasie, che pertanto chiude le finestre della propria mente, per punire il bambino delle sue cattive assenze?

O si tratta di una madre che potrebbe essere spaventata dal piacere infantile del Piccolo Perverso Polimorfo descritto da Freud, un piacere che a lei potrebbe apparire ‘eccessivo’, eccitato? Per cui, a quel tipo di madre, potrebbe risultare difficile fornire al piccolo la necessaria barriera parastimoli che lo metterebbe nelle condizioni, crescendo, di dotarsi della barriera di contatto. Freud ha introdotto il concetto di barriera parastimoli (o barriera paraeccitatoria) per descrivere ciò che protegge il bambino dalla pressione e dalla violenza che la realtà esercita sulla sua mente, la barriera di contatto è nel pensiero di Bion una sorta di “membrana semipermeabile che permette lo scambio tra conscio e inconscio e che delimita e differenzia l’inconscio dalla coscienza” (Mancia,1992)

In Peter Pan tale scambio tra conscio e inconscio è impossibile, egli infatti è portatore di una profonda scissione tra sé e sé: ha perso la connessione con la propria ombra …

 

Ma l’odio può essere del bambino per i propri genitori: Peter Pan, infatti, può anche essere la metafora dell’impossibilità, per alcuni bambini, di tollerare che la madre si dis-tragga da loro, coltivi una sua propria intimità solitaria chiudendo, a volte, le finestre della propria mente… E la fuga nell’IsolaCheNonC’È ne sia il risultato.

Insomma, si può per svariate ragioni essersi sentiti odiati dal care giver e/o averlo odiato di un odio scisso e denegato, impensabile poiché si tratta di un affetto non-riconosciuto come proprio-ma-presente-in-sé e quindi totalmente condizionante in modo oscuro (come per i giovani omicidi curati da Giovanna Giaconia), in un’area del sé che si deconnette - l’ombra perduta di Peter Pan - ed esiste al riparo dall’esame di realtà (Stein, 1987; Jeammet, 1989, 84; Scotto di Fasano, 2003): l’IsolaCheNonC’È: dove non esistono il tempo e la realtà.

 

Peter Pan infatti non vuole saperne di rinunciare al mondo delirante dell’IsolaCheNonC’È, dal quale dipende in modo tossicomanico e nel quale vorrebbe restassero imprigionati anche Wendy e i suoi fratelli.

 

●Mi chiedo se in certe evenienze un senso di colpa impregnato di odio non possa sadicamente attaccare l’Io quando questi non abbia saputo/potuto evitare la morte a oggetti teneramente amati.

A tale proposito ci si può domandare se è banale leggere in questi termini il suicidio di molti sopravvissuti alla Shoah, in balia della colpa persecutoria della sopravvivenza e nell’impossibilità di odiare francamente amici e congiunti per essere scomparsi, da un lato, unitamente, dall’altro, all’impossibilità di tollerare di aver desiderato la propria sopravvivenza a qualunque costo.

È infatti salutare, per la nostra mente, avere “libero accesso alle componenti sadiche della propria identità”(Searles, 1979, 389) così come è necessario, in analisi, preparare uno spazio per l’odio (Mancuso, 2003) poiché incontrare il proprio odio avvia al ridimensionamento della propria immagine idealizzata.

In conclusione, ritengo che dobbiamo riconoscere quello che Jeammet (1989) chiama “il nostro bisogno esistenziale di innocenza – innocenza che vuol dire necessariamente trasformazione menzognera del reale” (67). Con tale ineludibile realtà interna siamo costretti a fare i conti quotidianamente e più volte al giorno.

Con buona pace di coloro che attribuiscono a Melanie Klein il ‘torto’ di aver annullato il peso della realtà esterna a favore dei fantasmi e delle angosce del mondo interno, ritengo, con Freud, che “ i nostri sentimenti […] influenzano la nostra vita psichica persino più imperiosamente che non le percezioni esterne” (1938, 588).

 

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Daniela Scotto di Fasano

Psicologa, psicoanalista, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association.

Ha svolto attività didattica presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia e presso il Corso di Laurea in Psicologia dell’Università agli Studi di Pavia, dove ha avviato, nel 1999, i corsi di Infant Observation in collaborazione con l’insegnamento di Psicologia Dinamica.

Ha fatto parte della redazione della rivista della SPI Psiche dal 2002 al 2009. Fa parte dal 2010 della redazione SPIWEB.

Svolge attività di docenza e supervisione all’Istituto Ricerche di Gruppo - Scuola di Psicoterapia, Lugano, dal 2003.

Temi principali dei suoi interessi sono le problematiche connesse ai percorsi di crescita psicologica, in particolare alla luce dei nuovi scenari imposti dai mutamenti sociali.

Sue pubblicazioni in: volumi collettanei, SPIWEB, Rivista di Psicoanalisi, Psiche, Quaderni degli Argonauti, Interazioni.

Ha curato la pubblicazione dei volumi:

Il sonno della ragione. Saggi sulla violenza (con M. Rampazi, Dall'Arco, 1993);

Apprendere dal bambino (con M.Francesconi, Borla, 2009);

L’ambiguità nella clinica, nella società, nell’arte (con M.Francesconi, Antigone Edizioni, 2012).



[1] Dal quale nel 1963 Peter Brook trasse il film omonimo.

[2]Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1962) è un romanzo fantapolitico di Anthony Burgess, dal quale Stanley Kubrick trasse la versione cinematografica uscita negli Stati Uniti nel 1971 e nel resto del mondo nel 1972.