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Culture
Pietro I e Caterina II di Russia, gli zar che diedero l'impriting ai Romanov

Due sono stati i personaggi di alto profilo storico, politico e sociale e, naturalmente, genealogico, che hanno fornito l’imprinting specifico alla famiglia dei Romanov, zar di tutte le Russie, che l’ha caratterizzata lungo lo snodarsi dei secoli della propria esistenza dinastica e di potere: Pietro I (1682 – 1725), più specificatamente conosciuto come “il Grande”, e Caterina II (1762 – 1796), anche lei meglio individuata con l’appellativo de “la Grande”, di origine tedesca, nata Sofia di Anhalt – Zerbst, consorte del dinasta Pietro III (1761 – 1762), imperatore di Russia, al quale succedette nel 1762, allorché costui venne costretto ad abdicare da sua moglie e morire, quindi, avvelenato su imput di costei o, addirittura, strangolato dalle mani dei fratelli Orlov, Grigorij, amante della stessa Caterina, e Aleksej, detto “lo sfregiato”, come documenta, a pagina 257, con un periodare dalla pacatezza polita ed efficace, nel suo ponderoso saggio, Simon Sebag Montefiore, I Romanov 1613 – 1918, Milano, Mondadori, 2017.   

È una storia, se si pone mente agli accadimenti narrati nello studio, non soltanto intrigante, ma, al tempo stesso, coinvolgente, tragica ed esaltante che inchioda il lettore di fronte ad una leviatanica pittura musiva che possiede innumeri elementi di attrazione, in alcuni casi, altresì, morbosa, in special modo per tutto quello che afferisce, negli ultimi anni di esistenza della famiglia imperiale russa, la luciferina cifra del monaco-guaritore Grigori Efimovic, altrimenti individuato come Rasputin che, con le proprie fosche arti diaboliche, quasi, riusciva a calmare le crisi epilettiche dello zarevich, Alessio, gravemente affetto da emofilia, conquistandosi la sconfinata fiducia dell’imperatrice e, di conseguenza, la sua perenne, cieca riconoscenza. In una corte, come quella di San Pietroburgo, che avversava ferocemente il ferino santone, soprattutto per le continue ingerenze negli affari più delicati dello Stato. Tanto da condizionarne pesantemente gli esiti politici ed amministrativi in un’Europa in cui gli ultimi scampoli nazionalistici sobbollivano pericolosamente sì da costringere le giovani realtà statuali del Vecchio Continente, come l’Italia e la Germania, all’affermazione, in alcuni casi piratesca, unitamente al riscatto prepotente delle cosiddette terre “irredente”.   

Simon Sebag Montefiore si muove con mano sicura in quel coacervo di spinte e controspinte, di contraddizioni e  scenari aperti su di un mondo spesso oscuramente controverso, ad altissimo tasso adrenalinico. Per molti aspetti, però, incomprensibile per le menti del mondo occidentale, che ha costruito la sua storia, drammatica, sì, ma che in tantissime esperienze di vita e di pensiero, ha continuamente temperato con la solarità di un mare, quello Mediterraneo tutte le vicende che si sono susseguite in un ritmo davvero parossistico. Nello snodo dei secoli, esso ha diluito le interferenze e le animosità eccessive nate tra i popoli, che su questo mare si affacciano, nutrendosi di quella indefettibile linfa che risponde al nome di Cristianesimo che può, perennemente, contare su di un humus indefettibile qual è quello del pensiero, della cultura classica, ellenica e latina.   

In tutta la vicenda storica dei Romanov, in cui a tratti serpeggia anche la follia come tara familiare, è la figura dello zar Alessandro I (1777 – 1825) quella che si proietta con sicura determinazione sull’Europa napoleonica che sembrava non dover venire mai meno dall’assetto che aveva disegnato per essa l’imperatore dei Francesi. Rivelatrice, si poneva, anche se ogni questione rimaneva obnubilata dalla fantasmagoria della vittoria nella battaglia dei Tre Imperatori, ad Austerlipz, nella Moravia, il due di dicembre del 1805, il primo anniversario della proclamazione dell’impero, contro gli eserciti di Austria e Russia rispettivamente guidati da Francesco II d’Asburgo (1768 – 1835) e, per l’appunto, da Alessandro I. Che, a propria volta, fiaccò, irredimibilmente, la baldanza francese durante la spedizione di Russia che divenne il drammatico prodromo della débâcle dell’avventura napoleonica. Infatti l’imperatore russo, a coronamento della propria ostinata avversione contro il parvenu della Corsica -che proprio parvenu non era essendo il rampollo di una famiglia della piccola nobiltà toscana, trasferitasi in Corsica per ragioni economico-finanziarie-, entrò in Parigi nel 1814 e nel 1815, dopo la prima e la seconda caduta dell’imperatore di Francia, partecipando al Congresso di Vienna, tenutosi nella capitale dell’impero austriaco dal 1814 al 1815, durante le sessioni del quale fu dato dai rappresentanti delle potenze del Vecchio Continente, un assetto diverso dopo la fulminea, sconvolgente parabola napoleonica.   

La visione delle vicende dei Romanov e di tutto il mondo che intorno ad essi formicolava, proposta da Simon Sebag  Montefiore, si articola in tre atti e diciassette scene come se fosse un immenso, conturbante spettacolo che possiede, come elettivo spazio teatrico, due Continenti, l’Europa e l’Asia insieme, sui quali la Russia “siede a scavalco”, ed in cui protagonisti e comprimari interpretano il proprio ruolo con puntigliosa abnegazione e ammirevole identificazione; tale da rendere compartecipe il lettore-spettatore che, in tal modo, diviene parte integrante della epica vicenda che, a sua volta, annichilisce ed avvince, entusiasma ed appassiona sebbene, in alcune sequenze, si prefigga di riabilitare certi controversi figuri e avvenimenti interni ed internazionali sdoganandoli di fronte alla sensibilità storica e sociale degli studiosi e dei cultori; ma non soltanto di costoro, bensì anche delle vicende che, nel corso dei trecentocinque anni di storia imperiale zarista, hanno impresso un crisma indelebile sia alla nazione russa che ai diversi popoli europei con i quali essa, giocoforza, entrava in contatto per le diatribe della politica sugli scacchieri internazionali.
 

La tragica fine di questa dinastia autenticamente russa nella residenza dell’ingegnere Nikolaj Ipat’ev, a Ekaterinburg, aggiunge un forte pathos, a tutta la dolorosa esperienza vissuta da un’intera popolazione e da coloro che, istituzionalmente, la rappresentavano in una recita “segnata” dalla particolare intensità dei sentimenti che silenziosi vibravano nelle menti e nei cuori di ciascun attore, riverberandosi nell’intera drammaticità insita nel codice somatico delle vittime e dei carnefici. “Al termine di quei dieci minuti di [sconvolgente] delirio Jurovskij verificò che le vittime fossero tutte morte, poi ordinò agli uomini di iniziare a spostarle” (p. 801).   

È l’epilogo di ogni rivoluzione che si scioglie in una proterva, manichea visione degli accadimenti nella quale presunti colpevoli e sanguinari giustizieri sono tutti insieme giudicati dalla storia che, con la propria oggettiva fisionomia, valuta ogni fatto con un  metro onesto perché non vincolato a individuali strutture psicologiche.
    

Come nello specifico della famiglia dei Romanov.                           

 

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