di Francesco Borgonovo
"Se cammini con Gesù/ Lui ti salverà l’anima/ Devi tenere il diavolo/ giù in fondo al buco". Sono le parole di “Way down in the hole”, scandite dalla voce cruda di Tom Waits, in un disco del 1987 intitolato “Frank’s Wild years”. Come tante altre canzoni di Waits, racconta del dolore, di smarrimento, di quegli scarti bui dell’esistenza che si vivono nelle periferie: in quelle delle grandi città americane e in quelle della vita. Territori miseri e a volte ostili, popolati di una fauna da racconto di Bukowski: barboni, puttane troppo truccate, ubriaconi macilenti. È il mondo malaticcio, quasi moribondo di Waits, uno dei più grandi cantautori americani di sempre, che oggi viene celebrato da La Civiltà Cattolica.
Tom Waits
Il numero in uscita oggi della rivista dei gesuiti presenta un lungo articolo di padre Antonio Spadaro intitolato “Tom Waits: «...E l’alba esplose come una frustata»”. L’autore ripercorre il cammino artistico di Waits, ricrea le atmosfere dei suoi trenta album (contando anche le raccolte) e offre una lettura inaspettata del musicista. Lo presenta come un artista in ricerca, sempre prossimo a Dio, profondamente umano e, per molti versi, pure cristiano. Suonerà strana questa tesi a chi è abituato all’immagine “maledetta” di Waits, quella che lo ha accompagnato dall’inizio della carriera almeno fino agli anni Ottanta e al suo matrimonio con Kathleen Brennan, la donna che gli ha dato tre figli e ha rivoluzionato la sua carriera.
Nell’immaginario collettivo, Waits e la sua voce gracchiante sono legati alle notti folli e chimiche dell’America degli anni Settanta profondi e perduti. Alle grandi sbornie e ai bar fumosi, all’umanità malconcia dei perdenti, a scenari che mescolano Rimbaud, Raymond Carver e i poeti beat. A un primo sguardo, quanto di più lontano dalla via luminescente della fede cattolica. Eppure, proprio qui Spadaro vede l’importanza del musicista e del cantastorie. «Waits si sente fratello di poveri, dimenticati, emarginati, incompresi, perdenti, ma non di vittime senza speranza» scrive "Ci sono fragilità nelle parole di Waits e desiderio di tenerezza, espressa follemente anche attraverso i gorgheggi rauchi di una voce catramosa, ma non un urlo arrendevole". E poi c’è Dio. Sempre vicino, sempre presente.
"In genere" conclude Spadaro "la sua presenza è sul ciglio che separa dannazione e salvezza. Ora è di là, ora è di qua. Ma sempre ha a che fare con la salvezza e la dannazione degli uomini che Waits mette in scena".