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Culture
Dalla Turchia a Falcone e Borsellino: morire per onestà

di Alessandra Peluso

In preda al disordine, alla precarietà, al relativismo, pare d’obbligo soffermarsi su quelle che molti definiscono idealità, ovvero sui valori, su alcuni princìpi etici che, se presi in considerazione, muterebbero di gran lunga la condizione umana.

Mi riferisco, al momento, al termine “onestà”. Già a pronunciarla, si immagina un alpinista scalare una montagna altissima, una vetta come l’Everest, un’impresa perniciosa da realizzare. Curiosa, pressoché, l’etimologia se la si riferisce alla lingua greca: “ov-estì”, che riguarda una caratteristica interna, quel “quid” che detiene la sostanza. Ciò che è. E quindi, sembra essere un valore che rende l’essere umano coerente con se stesso e con l’altro sia nel pensare sia nell’agire. Attenzione, però, la coerenza e l’essenza dell’individuo è per natura buona o cattiva, è portata all’agire secondo il bene oppure verso il male?

Si ha a che fare, giustappunto, con problematiche filosofico-esistenziali che hanno riguardato non pochi secoli, ma è evidente - mi auguro -  che l’essere onesto implichi un’azione benevola verso sé e verso gli altri.

Nel “De Officiis” di Cicerone, “onesto” è stato attribuito all’essere giusto, ossia ad agire secondo giustizia, oppure “onesto” per Dante significa di bell’aspetto. E ancora, secondo Machiavelli l’onesto ha il senso di dignitoso, onorevole, non quello di assolutamente buono. L’onestà moderna, invece, indica il rispetto per le leggi, per il lecito, come pure alla sincerità di parola e di correttezza di azione nell’ambito degli scambi commerciali. E in età contemporanea? Utopia? Improponibile quasi come concetto, o come modo di essere e di fare.

Sembra obsoleto parlare di onestà ed esserlo al contempo, così come parlare di onore, di coraggio. Nessuno ci chiede di morire per l’onestà o per il coraggio, ma in molti e in troppe occasioni la morte per onestà è stata imposta, ovvero resa obbligatoria con la morte, basti pensare ad esempio a Falcone, a Borsellino, per citarne alcuni. In questi giorni, invece, l’onestà e il coraggio in Turchia si considerano delle malvagità contro l’egemonia dittatoriale. Tutto deve essere controllato, affinché il potere resti saldo. È straziante vedere corpi di intellettuali ammassati come se fossero chissà quali serial killer; in realtà, il potere intellettuale spaventa e in uno Stato come la Turchia, in questo momento, spaventa moltissimo, a ben vedere.     

E allora, di fronte a tali vicissitudini, non si può che impugnare l’arma dell’onestà, come ideale, come principio educativo da estendere sin dalle nuove generazioni e radicarlo. È necessaria, pertanto, una cultura umanistica.

Discutere attorno all’onestà non deve essere desueto, né chimerico, bensì, opportuno. Si può cominciare innanzitutto a guardarsi dentro, a ricercare il sé – sebbene qualcuno potrebbe credere che si tratti di una prerogativa del solo filosofo – ogni soggetto pensante, ciascun individuo, potrebbe cominciare a riflettere sul fatto che ciò che dice e pensa  sia coerente col suo inconscio, con la parte profonda di sé.

E dunque, “Onestà” è guardare i propri limiti, riconoscerli, accettarli. Rispettare i propri ruoli. Ecco perché considero sublime prerogativa dello spirito di ciascun essere umano. Non tutti la conoscono, non molti la praticano. C’è chi non la esercita, prevaricando l’altro con mezzi di ogni tipo pur senza sapere quale obiettivo raggiungere, chi indossa maschere, e chi agisce non avendo coscienza di sé. Da un tipo di onestà intellettuale, come potrebbe definirsi, c’è poi l’onestà politica. Eppur tuttavia il potere può conciliarsi con l’onestà? No, affatto. O forse sì.

Nel senso che è talmente consapevole di sé che utilizzando escomatage e avvalendosi di un corredo logistico agisce per realizzare il proprio interesse, nascondendosi dietro il fare perché si deve. È giusto così. Ma chi è in grado di dire cosa è giusto o sbagliato? Il potere non può arrogarsi questo diritto.

D’altronde, ammette Hannah Arendt, il male più radicale è quello commesso da persone insignificanti, persone che rinunciano a pensare, appunto, rinunciano al silenzioso dialogo dell’Io con se stesso, rinunciano a essere uomini. Questi viventi non umani, non sono più in grado di produrre giudizi morali, di distinguere il bene dal male. È questo il fenomeno per il quale la Arendt definisce Eichmann come “l’assoluta incarnazione della banalità del male”.

E allora, l’uso del pensiero è indispensabile. Ciascuno usi il proprio pensiero, la propria energia e pratichi il benessere dell’essere umano, dell’intero pianeta. La pubblica felicità potrebbe consistere proprio in questo: praticare l’onestà. Oggi, si deve!

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