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Economia
Azimut, Ubi e Prysmian: le blue chips tornano prede. L'allarme di Messina

Quanto ha pesato l’incertezza politica seguita alle elezioni dello scorso 4 marzo sulle principali blue chip di Piazza Affari? A livello di indice Ftse Mib il calo da allora è risultato pari a circa 3 punti percentuali, tra continui alti e bassi. Ma non per tutte le principali capitalizzazioni italiane la storia è andata allo stesso modo, tanto che per alcune, in particolare del settore finanziario, questi ultimi tre mesi e mezzo hanno segnato un calo a doppia cifra che rischia di trasformarle in potenziali prede.

Guardando ai cali segnati dalla chiusura del 2 marzo ad oggi, il titolo più bersagliato dalle vendite appare essere stata Azimut Holding: non sarà un caso che proprio negli ultimi giorni Timone Fiduciaria, la holding che riunisce 1.600 soci-dipendenti e soci-consulenti finanziari aderenti al patto di sindacato che controlla la società fondata da Pietro Giuliani, ha approfittato per salire dal 16,4% al 21,4% del capitale. Parallelamente il fondo Peninsula Capital ha “prenotato” presso Goldman Sachs circa 3,8 milioni di azioni (consegna entro dicembre prossimo), pari al 2,8% del capitale, apportandole al patto di sindacato che così ora controlla il 24,2% circa di Azimut Holding, nata come gruppo di asset management all’interno di Bipop-Carire e rilevata tramite un management buy-out dallo stesso Giuliani e dai top manager, affiancati da un altro fondo di private equity, Apax Partners, che aveva poi accompagnato il gruppo in borsa nel 2004 uscendo definitivamente dal capitale l’anno successivo.

L’attuale ritorno d’interesse da parte di un grande fondo di private equity potrebbe dunque essere la premessa per ulteriori evoluzioni della struttura di controllo del gruppo nei prossimi mesi o anni. Un altro paio di “bei nomi” della finanza italiana che hanno sofferto i risultati elettorali sono poi Unicredit (-15,3%) e Intesa Sanpaolo (-14,7%). Se nel caso dell’istituto guidato da Jean-Pierre Mustier, che vede come azionisti rilevanti solo più soci finanziari come Aabar (5%) o il fondo Capital Research (4,74%), si parla con insistenza da qualche settimana di un possibile “ritorno di fiamma” per Societe Generale (29,1 miliardi di capitalizzazione contro i 32,3 miliardi del gruppo italiano), in Intesa Sanpaolo è evidente il disappunto di Carlo Messina per una situazione che espone il gruppo, controllato da Compagnia di San Paolo col 9,9% e Fondazione Cariplo col 4,68%, al potenziale rischio di finire preda di qualche gruppo estero.

Commentando l’intervento del ministro Tria alla Camera in occasione del voto sulle risoluzioni al del Def, Messina ha sbottato: “Ha detto le cose che probabilmente andavano dette un mese fa, questo ci avrebbe evitato la risalita dello spread e la caduta della borsa”. Aggiungendo, a scanso di equivoci: “Noi capitalizzavamo 53-54 miliardi, eravamo la terza banca d’Europa. Oggi siamo con un valore di borsa con 43-44 miliardi, siamo la quinta banca d’Europa e abbiamo perso dieci miliardi di euro nei valori di borsa, con una riduzione anche della nostra forza relativa in Europa”.

Messina non lo ha detto, ma avrebbe potuto aggiungere che il lungo stallo politico ha fatto perdere ulteriori punti all’Italia in un’Europa che vede sempre più un dialogo a due tra Francia e Germania, che a Meseberg si sono accordati per proporre un “obiettivo” di riduzione dei crediti deteriorati lordi e netti (per le banche italiane pari attualmente all’11% e al 6%) al 5% e al 2,5% dei prestiti totali, rispettivamente. Ma si sono ben guardati dal fare riferimento a derivati e titoli “tossici” di cui sono ricchi i bilanci degli istituti francesi e tedeschi, ben più di quelli italiani.

Tenendo presente che dal 4 marzo hanno dovuto incassare perdite a doppia cifra anche gruppi come Mediobanca (14,5%, con una capitalizzazione scesa ormai a 7,2 miliardi), Ubi Banca (-14,3%, meno di 3,8 miliardi di capitalizzazione) e persino Generali (-10% circa, circa 22,8 miliardi di capitalizzazione), tra le altre possibili “prede” create da questa situazione di protratta incertezza, non meno che dalle tensioni commerciali e dall’approssimarsi della fine del quantitative easing della Bce sono risultati anche alcuni titoli industriali. Se Cnh Industrial (-12,8% circa e capitalizzazione scivolata sotto i 12,9 miliardi) non pare correre rischi visto che Exor pur col 26,89% di capitale gode del 41,68% dei diritti di voto, Prysmian (-11,3%, poco più di 5,75 miliardi di capitalizzazione) potrebbe correrlo in teoria.

La società guidata da Valerio Battista ha tuttavia giocato d’anticipo, acquisendo l’americana General Cable integrando la quale ha dato vita a un gruppo con 30 mila dipendenti, 112 stabilimenti sparsi per il mondo, una presenza in oltre 50 paesi e vendite annuali per oltre 11 miliardi di euro/13 miliardi di dollari. La public company nata dalla vendita nel 2005 delle attività nei cavi di Pirelli ai fondi di Goldman Sachs per 1,3 miliardi di euro, cui seguì lo sbarco in borsa nel 2007 (sulla base di una valutazione di 2,7 miliardi), vede tuttora tra i suoi azionisti principali unicamente investitori istituzionali come Clubtre (Tamburi Investment Partners), col 3,4% circa, T. Rowe Price col 3,1% e Norges Bank col 4,63%.

Ma grazie alla continua crescita delle attività su base organica e tramite acquisizioni è da tempo leader mondiale del settore cavi telefonici e per energia. Mentre l’integrazione di General Cable porterà il gruppo italiano a generare un terzo circa delle sue vendite sul mercato statunitense, dove opera con 23 impianti e 5.800 dipendenti. Abbastanza per essere al riparo, oltre che da “attenzioni” non gradite, da eventuali ripercussioni legate alla guerra dei dazi intrapresa dall’amministrazione Trump contro il resto del mondo.

Luca Spoldi

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