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Economia
Industria, basta con il dumping della Cina
Di Paolo Brambilla
 
«Le industrie cinesi operano in concorrenza sleale, grazie a sovvenzioni e senza rispettare gli standard ambientali. E per questo possono esportare spesso in regime di dumping. La UE deve rivedere la propria politica antidumping, specie in considerazione dell’imminente scadenza del protocollo di adesione della Cina al WTO, e quindi, al possibile riconoscimento alla stessa Cina dello status di libero mercato”. 
 
E’ il messaggio lanciato da AEGIS Europe e dai rappresentanti italiani di settori di primaria importanza come l’acciaio (Federacciai), le industrie ceramiche, l’alluminio (Centroal), le calzature (Assocalzaturifici) e l’Associazione europea produttori di biciclette.
 
«Ancorché molto tecnico - ha dichiarato Alessia Mosca, membro della Commissione commercio internazionale della Ue - il tema ha raggiunto un’importanza crescente e lo stesso Parlamento ha lamentato con la Commissione il fatto che si sia arrivati a discutere di questo importantissimo argomento soltanto a ridosso della scadenza sancita dal protocollo di adesione della Cina al WTO».
 
Una problematica di scadenza che è soprattutto europea, dato che solo l’UE detiene una specifica lista dei Paesi che non considera far parte della cosiddetta “economia di libero mercato” e sulla quale la Cina potrebbe a breve presentare un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio.
 
La produzione industriale in Cina mantiene un +6% costante grazie alla manifattura high-tech. Gli investimenti salgono del 9% a settembre, con le entità statali a +21,1% nei primi 9 mesi del 2016 e il settore privato fermo a +2,5%. In un contesto di incertezza globale, la strategia di Pechino “privilegia il mantenimento della crescita rispetto alla riduzione del debito”, osserva in una nota Andrea Goldstein di Nomisma. 
 
Il dato del +6,7% è assicurato “grazie alla spesa pubblica in infrastrutture, al credito bancario e a un mercato immobiliare che rimane caldissimo”. Ma soprattutto grazie a molte pratiche finanziarie che sono spesso identificabili come “aiuti di Stato” e che permettono alle aziende cinesi di esportare beni a prezzi talmente inferiori al mercato, da essere poco credibili. Se una bicicletta prodotta in Cina, a parità di componenti, costa la metà di una prodotta in Bangladesh, c’è qualcosa di poco chiaro.
 
Anche Bernard O’Connor, in rappresentanza di Aegis Europe, ha affermato che la revisione degli strumenti antidumping da parte della Commissione sia di per sé un fatto positivo, sia per la necessità di adeguare gli strumenti ai tempi, sia per renderli più simili al meccanismo in atto negli USA. 
 
Per quanto riguarda il settore dell’acciaio, il direttore di Federacciai Flavio Bregant ha ribadito, interpretando anche il sentiment di tutti gli altri settori, che “nessuno parla né chiede alcuna forma di protezionismo, bensì strumenti di difesa contro le pratiche commerciali scorrette, perché vengano ripristinate condizioni competitive eque per tutti.” 
 
Non si tratta di chiedere trattamenti di favore per le aziende europee, ma soltanto di giocare ad armi pari con le aziende cinesi, uniformando le regole e chiedendone il rispetto. Finché questo aspetto non sarà realizzato, non si potrà parlare di economia di mercato per la Cina.
 
Inoltre, ha precisato Bregant, “non riteniamo che l’applicazione dell’articolo 15 del protocollo di adesione al WTO sia automatica, e sono concordi anche gli avvocati che abbiamo interpellato. Se lo si vuole concedere è una scelta tecnica di politica commerciale e non un obbligo”.
 
L’onorevole Mosca ha quindi evidenziato come la proposta, da una prima valutazione, risulti insufficiente: “vi sarebbero troppe parti di discrezionalità nei meccanismi di valutazione, non vi sono definizioni chiare nelle pratiche di dumping da sanzionare né vengono stabiliti in maniera univoca i criteri per l’estensione dei report, di cui non viene nemmeno indicata la periodicità”. 
 
Ad esempio la definizione “significative distorsioni” dei prezzi non ha base giuridica e rende difficile la tutela delle imprese europee. 
 
Non va dimenticato inoltre che, in caso di attribuzione della caratteristica di “economia di libero mercato” alla Cina, si invertirebbe “l’onere della prova” di eventuali scorrettezze. Attualmente è la Cina a dover provare di non averne commesse, mentre una volta ammessa la Cina fra le economie MES, spetterebbe ai Paesi europei dimostrare che le norme sono violate dal Paese asiatico. Onere non da poco.
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