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Economia
Benetton, la storia di quelle montagne di denaro risucchiate dall'autostrada

“Kukoč era un genio assoluto del basket, giocatore multidimensionale capace di vedere cose in campo che solo lui vedeva. E in più aveva quasi 2 metri e 10, aveva tiro quando serviva, fisicamente era una specie di tiramolla tentacolare e, facendo felici i cultori della difesa, è stato, quando voleva, il più grande difensore fra i sommi”, sono le parole e i giudizi di Sergio Tavcar, lo sport a TV Koper Capodistria, forse uno dei più grandi cultori del gioco della pallacanestro. Sport che in Italia segue a breve distanza il calcio, e che nei grandi capoluoghi come Milano, Bologna, Trieste, Venezia e Roma è capace di infiammare le folle. Non ancora a Treviso, ed è proprio qui che avviene il primo miracolo sportivo della famiglia Benetton, divenuta proprietaria della pallacanestro, decide di prendere seriamente l’avventura ingaggiando grandi campioni come Rusconi, l’italo americano Vinnie Del Negro a cui affiancano la grande stella di Toni Kukoc.

Sono scudetti e coppe come se piovessero, ed in più quattro final four di Eurolega, l’equivalente dell’attuale Champions League per il calcio. Forse bisogna partire qui, dallo sport, dalla palla arancione (uno dei tanti colori che compongono lo United Colors) e dai successi al Palaverde (altro colore fondamentale) per capire quanto era potente, ammirata e idolatrata la famiglia dei Benetton, che a Treviso in quei tempi veniva portata su un palmo di mano. 

Sono gli anni ’90, l’Italia deve nuovamente risollevarsi dopo gli schiaffi ricevuti dalla speculazione internazionale, la Lira e a terra e la politica si deve rinnovare. Ed è proprio una lira in caduta che fa da catapulta rilanciando questa regione economica, il Nord Est, un tempo terra povera di contadini ed emigranti, da cui nasce una classe imprenditoriale coraggiosa. Tessile, occhialeria, calzatura, banche e assicurazioni, il territorio rinvigorisce, la svalutazione della moneta è un grande aiuto, permette di aggredire con l’export, tanto che il Nord Est viene visto come una nuova Silicon Valley.

Una fioritura imprenditoriale confermata da un uomo che questa famiglia l’ha conosciuta molto bene, Falvio Briatore che dichiara: «In Italia credo che dopo la guerra abbiamo avuto due grandi esempi, tre: per me c’è stato Benetton, ho lavorato con loro… e poi c’è stato Del Vecchio che è in tutto il mondo – la Luxottica – e c’è stato Berlusconi».

Del Vecchio negli occhiali che conquista l’America, e i Benetton nel tessile che attirano l’attenzione del pianeta anche attraverso campagne pubblicitarie che fanno scalpore, sono i trascinatori del dinamismo di quel territorio, il Nord Est che successivamente diventerà un modello di sviluppo.

A Briatore i Benetton affideranno i motori, un successo anche quello, con la vittoria del Mondiale e la scoperta di un campione come Michael Schumacher. Perché non c’è solo la pallacanestro, ci sono anche i bolidi, c’è la Sisley pallavolo che anch’essa miete successi e c’è il rugby. Il tifo della zona li acclama, così tanto che si pensa anche ai miracoli e cioè al calcio, con i Benetton che comprano anche questa squadra per portarla in Serie A. Rimarrà un sogno, la squadra riuscirà sì nell’impresa, ma senza i quattrini delle magliette.

Gioie e malumori, venerazione e odio, perché non sono solo successi quelli che spargono i Benetton nel Nord Est, sul campo lasciano anche molte vittime e malcontento. Da un lato c’è il tifo sportivo che cresce in esaltazione, una classe dirigente che li prende a modello e ne fa vanto, e dall’altra ci sono operai, piccoli artigiani e laboratori che soffrono e si impoveriscono a causa della strapotenza familiare.

Il tempio è il Palaverde, verde come l’ambiente che circonda la capitale Treviso, verde come un altro colore della costellazione United Colors, verde come il colore dei soldi, verde come i profitti che dalla tessitura dei maglioni e dalla vendita in franchising in tutto il mondo, piovono sulle casse dell’azienda e che in grossa parte vanno a gonfiare la Edizione Holding (l’azienda di famiglia) e in buona parte nel settore sportivo ad alimentare i successi. Tutti intorno al feudo si fa il deserto.

Laboratori, ricamifici, stirerie e piccoli imprenditori che lamentano un pessimo trattamento, strangolati e rovinati dalla politica del lavoro attuata dai Benetton: pagamenti ritardati all’infinito, commesse annullate per esigenze aziendali e dulcis in fundo, la delocalizzazione dove la manodopera era ancora più a buon mercato, un comportamento che ha portato al fallimento un sacco di lavoratori e alla crisi un distretto a cui l’arrivo della Cina ha dato il colpo di grazia.

Non basta, perché c’era anche chi si lamentava della materia prima, definita da molti come infima, scadente, che procurava allergie in chi la lavorava, un cotone che si spezzava facilmente e che veniva continuamente riannodato, nonostante questa materia prima provenisse dalla Patagonia, terra ricca di pascoli e dunque di lana, che i Benetton avevano colonizzato, sfruttando ma senza mai ledere la loro immagine.

Ma come può essere che da semplici venditori di maglioni e t-shirt, seppur coloratissime e di gran moda, i Benetton siano riusciti a diventare una delle famiglie più importanti d’Italia? La loro storia si potrebbe sintetizzare e riassumere in tre capitoli.

Il primo capitolo è quello delle magliette colorate, prodotte come abbiamo descritto sopra e vendute in franchising dove i costi sono a carico dell’esercente e i profitti si dividono perché il logo Benetton è importante e viene dato in concessione. E poi c’è il marketing, in pieno stile americano, che cavalca l’alba del consumismo e che vede nascere l’alleanza tra Luciano Benetton e Oliviero Toscani, genio e sregolatezza, un sodalizio spesso trasgressivo, ma che si rivelerà vincente. Per il marchio una grancassa roboante che innalzerà United Colors of Benetton tra i must della moda anni ’80.

Poi c’è il secondo capitolo, il salto di qualità, non solo in termini di quattrini, ma anche di potere. Ed è l’affare delle privatizzazioni. La politica di quel tempo (siamo a cavallo del 2000) si è impegnata ostinatamente nella riduzione del debito pubblico e come mezzo ha scelto la dismissione dei gioielli di stato. La vecchia industria italiana è reticente a spendere, ricordo che per Telecom, un marchio importantissimo, fu scucita una miseria per accaparrarsi quello che fu definito il “nocciolino”, una svogliatezza a cui pone rimedio Edizione Holding, le cui casse sono gonfie e vedono in queste privatizzazioni un’occasione. Casse gonfie, anche se in verità l’acquisto di Autostrade e Autogrill viene fatto grazie a prestiti bancari, ripagati successivamente grazie ai ricchi introiti sui pedaggi. Perché, sia che si tratti del tessile, sia dei trasporti, la natura della famiglia è sempre la stessa, tirare la cinghia, spendere il meno possibile e incassare quanto più si può. Le privatizzazioni a quel tempo furono aspramente criticate, sia per i metodi e sia per gli incassi ottenuti, operazioni su cui il governo, all’epoca di sinistra, invece ne fece un vanto. Oggi ne paghiamo le conseguenze, con uno Stato che si ritrova più povero in proprietà e con un Debito Pubblico che sebbene in quel periodo riuscì a scavallare di qualche decimale il 100%, oggi con il 130% è di molto sopra. Un affare?

Un’asta fallimentare da cui escono vincitori i compratori, e tra questi sicuramente i Benetton che su Autostrade, Autogrill e Aeroporti costruiscono un impero che trasuda utili e ricchezza. Per capire di che dimensioni stiamo parlando e perimetrarle, basteranno poche semplici cifre: nel 1982 quando nasce Edizione Holding, la società possiede una dote, attualizzata in euro, di 35 milioni, tutti interamente ottenuti dalla vendita delle magliette, a inizio duemila quel patrimonio lievita a 8,3 miliardi di euro.

E poi c’è il terzo capitolo, quello in cui si chiede il biglietto d’ingresso nel gotha, nel capitalismo d’elite attraverso i cancelli di Mediobanca e le pagine del Corriere. Per guadagnarsi il rispetto dell’alta finanza milanese, decidono di accompagnare, facendo da spalla, Marco Tronchetti Provera nella nuova avventura Telecom, proprio quella del “nocciolino”, e poi terreno di conquista della “razza padana”. I vari Colaninno e Gnutti, ormai piena di dissapori e contrasti, cedono alla nuova coppia che attraverso la creazione di una newco, decidono di prendere il controllo del gigante ormai oberato dai debiti. A differenza dei predecessori che su Telecom lanciarono un’opa mostruosa ed euforica, che il “parco buoi” ancora sogna di notte, la coppia Tronchetti e Benetton entra con una quota di minoranza del 27% (il 23% corrispondente al pacchetto ceduto dalla Bell di Colaninno e soci, e il 4% comprato sul mercato), e sempre secondo tradizione per i Benetton limitando la spesa al minimo possibile. Un’operazione che lascerà a bocca asciutta i piccoli azionisti, e darà alla coppia di comando, il controllo dell’azienda senza avere la maggioranza, come da tradizione. Un’operazione, quella di Telecom, che finisce senza successi, forse questo è il passaggio che denota il primo appannamento, o meglio, l’ascesa non è più così verticale, ma inizia una fase di stasi o di consolidamento.

“Una generazione fa e una disfa” che tradotto dal veneto significa una generazione crea e una distrugge, ed è proprio quanto accade anche nella famiglia Benetton. Ed è anche per questo motivo che proprio qualche mese fa, dopo la gestione fallimentare dei giovani rampolli, torna sul trono del regno il Benetton con la criniera, Luciano che a 80 anni ruggisce ancora come un giovane leone.

 “Avevo lasciato un’impresa con 155 milioni di euro di utile e ne ritrovo una con 81 milioni di perdita e ora sarà anche peggio”, era un Luciano Benetton furioso quello che solo qualche mese fa rilasciava interviste annunciando il ritorno. Furioso e battagliero, “i miei successori hanno sbagliato tutto”, ripeteva. Luciano che con la sorella Giuliana erano stati i pionieri di questo successo, avevano creato un’azienda rinomata nel mondo, poi dopo l’addio, tutto è andato storto.

Ora sono tornati e con loro era pronto un progetto di rilancio. Purtroppo non sempre le cose si ripetono e non sempre vanno per il verso giusto, questa volta il ritorno ha preceduto di poco lo schianto, dell’azienda e soprattutto dell’immagine di questa, in Italia e in tutto il mondo. Luciano però ha ragione, estrapolato il settore conquistato con le privatizzazioni, la parte originaria, il tessile, era in una china discendente già da tempo, tanto che il titolo di riferimento Benetton, in borsa, era stato delistato (tolto dal listino) nel 2012, a prezzi che erano sui minimi dal 1991, proprio il periodo da cui la gloria ebbe origine.

26 anni di borsa, 26 anni di quotazione (dal 1986 al 2012) che agli azionisti non hanno regalato particolari gioie, né dolori, a parte la decadenza nella coda finale. Ben altro discorso per la società Autostrade (Atlantia) e Autogrill, la prima una mucca generosa da mungere annualmente attraverso lo stacco di ricche cedole, la seconda, una tigre aggressiva che sul listino procedeva a balzi mostruosi, per avere un ordine di grandezza dai minimi di 2€ del 2001 ai 6€ del 2007, e dal minimo di 1,30€ del 2009 ai massimi assoluti di 11,50 del 2017.

Due conquiste che hanno fatto la fortuna di Edizioni Holding e su cui si mormora molto, anche maliziosamente in termini di amicizie politiche. Eppure, a parte una breve parentesi nel Partito Repubblicano, mai più replicato, dalla politica sono sempre stati distanti. A confermarlo sono le parole di Briatore, sempre lui, che dichiarò “con i Benetton ho lavorato, un gruppo completamente apolitico”. E allora come mai nel cda di Atlantia erano presenti un sottosegretario e nel collegio sindacale un alto funzionario di un ministero?

Singolare come comportamento, ma nemmeno l’aspetto più grave, visto che i problemi peggiori ora saranno concentrati su Atlantia e sul titolo quotato in borsa, che per anni fu definito un titolo difensivo, sicuro e un investimento molto remunerativo, e ora, dopo i recenti accadimenti ha rovinato il sonno non solo di piccoli risparmiatori, fondi, gestioni, banche, ma soprattutto ha rovinato le vacanze dei grandi investitori, ricchi petrolieri, sceicchi, svegliati di soprassalto a bordo dei loro panfili attraccati in chissà quale gioiello del mondo, e che ora, se già non l’hanno fatto, scapperanno in massa fuggendo da ogni casello, prima di tutti gli altri, perché loro, avranno la via preferenziale, sempre, in entrata come in uscita, un telepass gold.

Il cigno nero non lo trovi solo vicino ai laghi, in qualche banca, o in qualche luogo sperduto all’estremità del mondo, a volte può capitare di trovarlo sul ciglio di un autostrada, o peggio, sopra un ponte. “Il tacon se peso del buso”, dovrebbero conoscerlo bene i Benetton questo detto, visto che viene dal Veneto e che tradotto diventa più o meno così: la toppa è peggio del buco. Toppa che poteva essere utile per rammendare il buco nella lana considerata scadente dei maglioni United Colors, ma che non può servire per riparare il buco profondo del ponte autostradale a Genova e che tanto male ha fatto all’Italia e che farà ai conti Benetton.

United Colors of Benetton, era un marchio che aveva conquistato il mondo, il trionfo e l’unione dei colori sotto l’egida e il dominio del verde, colore primario e supremo e che d’ora in poi dovrà lasciare il posto d’onore o d’onere al rosso, colore del sangue e delle perdite che la società difficilmente riuscirà più a colmare. @paninoelistino

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