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Economia
Bilancio Ue, meno investimenti e caro-spread: i pericoli per l'Italia

Di Luca Spoldi
e Andrea Deugeni

La battaglia sul bilancio pluriennale dell’Unione europea è partita lo scorso febbraio, ma come spesso accade la politica italiana se n’è accorta solo ora che Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno trovato l’intesa, a sorpresa visto l’iniziale freddezza tedesca, su una proposta di bilancio dell’Eurozona che andrebbe poi integrata nel bilancio Ue e che prevede, tra l’altro, che i paesi membri (Ue) possano ricevere sostegno dal bilancio dell’eurozona “solo se adottano politiche in rispetto dei loro obblighi secondo il quadro di coordinamento delle politiche economiche europee, incluse le regole di bilancio”, ossia il famoso (per alcuni famigerato) patto di stabilità e crescita.

Certo, la proposta franco-tedesco resta ancora un progetto di là da venire, soprattutto per l'opposizione espressa oggi in seno all'Eurogruppo di alcuni paesi del nord, Olanda in testa. Ma con la probabile procedura di infrazione per deficit e debito eccessivi, l’Italia deve decidere se accettare di riportare nell’alveo delle norme comunitarie la manovra di bilancio 2019, finora difesa a spada tratta perché “espansiva” (anche se non mancano dubbi al riguardo da parte di vari analisti e osservatori), o se tirar dritta per la propria strada con la quasi certezza di andare a sbattere restando isolata. In questo secondo caso se la proposta franco-tedesca, come è possibile, passasse l’Italia rischierebbe di non ricevere il sostegno del bilancio dell’Eurozona, dunque in buona sostanza di vedere messi a rischio gli investimenti europei.

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Perché il bilancio Ue (di cui il bilancio dell’Eurozona sarebbe parte integrante) è proprio questo: un bilancio composto dal contributo dei 28 paesi Ue pari all’1% del Pil di ciascun paese, deve essere in pareggio ed è soprattutto un bilancio di investimento. Ma a vantaggio di chi? I due principali capitoli di spesa (rappresentando oltre il 70% delle voci di spesa) sono la politica agricola comune e la coesione economica, sociale e territoriale. Nel triennio 2014-2016 il maggiore beneficiario netto è stato la Polonia (10 miliardi di euro di investimenti all’anno ricevuti in media), la Germania (13,6 miliardi) e la Francia (oltre 7 miliardi) erano i principali datori netti, con l’Italia che risultava aver erogato in media 3,5 miliardi all’anno in più di quanto ha ricevuto.

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A occhio e croce, quindi, l’Italia può anche cercare di tenere il punto, non avendo molto da perdere a livello di saldi. Non solo: la Commissione Ue ha già proposto alcuni tagli e aggiornamenti al bilancio per tener conto dell’uscita di scena della Gran Bretagna post Brexit, sicché i fondi per la coesione che storicamente hanno beneficiato il Sud Italia rischiano comunque di non arrivare più nel nostro Paese ma di essere dirottati unicamente nell’Est Europa e verso il Portogallo (salvo ipotesi di compromesso che eliminerebbero i fondi per il Nord e Centro Italia e li manterrebbero per il Sud). Infine, la “condizionalità” (ossia il rispetto delle regole come pre-requisito per accedere ad un beneficio a livello europeo) è già prevista, ad esempio, nel meccanismo fondo di salvataggio della zona euro, l’Esm, per quanto riguarda l’assistenza ai paesi in difficoltà.

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La proposta franco-tedesca dunque non sembra poter pesare più di tanto sull’economia italiana e sui conti pubblici, ma il dibattito oggi non verteva solo sui conti comunitari: i ministri delle Finanze europei hanno oggi dato il loro supporto all’introduzione di nuove clausola di azione collettiva (“cacs”) sui bond della zona euro che consenta a una singola decisione di ristrutturazione di poter riguardare tutti i bond. Una modifica “tecnica” che rischia di avere effetti superiori alla proposta “politica” franco-tedesca. Finora le cacs, introdotte nel 2013, hanno previsto una ristrutturazione separata per ciascuna categoria di bond emessi da un paese.

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Con le modifiche approvate si passerà da un’approvazione a doppia maggioranza ad una a maggioranza unica, eliminando la consultazione specifica per ogni diverso tipo di titolo di Stato. In questo modo la ristrutturazione del debito sovrano diventerebbe più facile per le differenti categorie di strumenti, riducendo le resistenze da parte dei paesi del Nord Europa che non hanno mai smesso di temere di dover pagare i conti dell’indebitamento degli ex Piigs del Sud (non a caso queste modifiche sono state fortemente volute dalla Bundesbank e promosse da Francia e Germania già dal vertice di Mesenberg del giugno scorso).

Diminuendo di fatto le salvaguardie di cui dispongono i detentori di titoli, le “nuove” cacs rischiano di portare ad un aumento del premio di rischio soprattutto per i titoli di Stato di un paese come l’Italia (130% di debito/Pil, il secondo più alto d’Europa dopo la Grecia) e per il suo sistema bancario, che tali titoli detiene per quantità non trascurabili. In sostanza il rischio è che lo spread tra i rendimenti dei titoli di stato italiani (ma non solo) e i bund tedeschi si allarghi ulteriormente e infatti stasera il differenziale sale al 3,21% (contro l’1,68% del Portogallo, l’1,27% della Spagna o lo 0,78% della Francia), col rendimento dei decennali italiani ormai sul 3,59% (0,38% quello dei Bund tedeschi, 0,78% quello dei titoli di Parigi, 1,65% quello dei titoli di Madrid e 2,06% quello dei titoli di Lisbona).

(Segue...)

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