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Economia
Borsa, i titoli che vanno meglio? Quelli che non strapagano i Ceo

Chi l’ha detto che per ottenere i migliori risultati le aziende debbano ricorrere a manager “superstar”, strapagandoli? Come riferisce il Wall Street Journal è anzi vero il contrario: secondo uno studio di Msci Inc. che ha comparato sull’arco degli ultimi 10 anni il rendimento azionario di 423 società americane rispetto ai compensi che hanno ricevuto nello stesso periodo i rispettivi numeri uno, chi ha pagato maggiormente i Ceo è tra coloro che hanno ottenuto le peggiori performance e viceversa, tenendo conto anche dei capital gain di cui hanno beneficiato gli amministratori delegati (per quella parte di compenso rappresentata da stock option e bonus share). Lo studio non è che l’ultimo contributo ad un dibattito che va avanti, con toni a tratti anche accesi, tra top manager e analisti riguardo quanto (e perché) le società debbano (stra)pagare i propri vertici.

wall street
 

Una tendenza sempre più diffusa è, ad esempio, gratificare gli amministratori di ricchi pacchetti di stock option e bonus share che non sono esercitabili immediatamente ma solo dopo alcuni anni (e spesso in modo graduale nel tempo), il cui valore segue quello dell’andamento del titolo in borsa. Si vuole così motivare il top management a non concentrarsi unicamente sui risultati di breve periodo, ma impostare l’attività dirigenziale in modo da creare valore nel tempo per gli azionisti. La maggior parte delle società che hanno ottenuto i migliori e i peggiori risultati borsistici in realtà si sono limitate a pagare compensi ai loro manager in media con quelli di mercato, ma nel decennio esaminato quelle società che sono risultate contemporaneamente nel 20% di aziende che pagavano di più i propri manager e nel 20% di aziende con la peggiore performance borsistica hanno gratificato i propri Ceo mediamente di 10 milioni di dollari all’anno in più di tutte le altre.

Directa intermedia oltre 21 miliardi di euro nel 2016

 

Ma in Italia come siamo messi? Probabilmente bene ma non benissimo: secondo un’analisi di Credit Suisse sull’arco degli ultimi 10 anni (a fine 2016), un campione di mille aziende a conduzione familiare ha ottenuto un ritorno cumulato del 126%, vale a dire il 55% in più del risultato cumulato medio dei mercati azionari globali. Notare che le società a conduzione familiare quotate sembrano avere una marcia in più anche rispetto alle loro omologhe non quotate: sempre secondo il Credit Suisse otterrebbero infatti ritorni annui mediamente superiori di un 8% rispetto alle non quotate.

Una buona notizia per Piazza Affari, che da alcuni anni sta puntando a far sbarcare sul listino società a conduzione familiare di piccola e media dimensione, accanto ai grandi gruppi. Uno dei segreti delle società di questo tipo sembra essere la loro maggiore solidità patrimoniale: il loro indebitamento è infatti mediamente inferiore del 20% rispetto ai concorrenti maggiori a controllo pubblico.

tabella ceo 2
 

Quanto alle grandi imprese guidate da top manager con stipendi a nove zeri, tra compenso fisso (3,6 milioni di euro circa) e bonus annuale su obiettivi di breve periodo (6,4 milioni) Sergio Marchionne, numero uno di Fiat Chrysler Automobiles, non incassa che una frazione del bonus da quasi 130 milioni di euro di controvalore (alle quotazioni attuali) collegato a obiettivi a lungo termine. Da parte sua il titolo è sui massimi storici e dunque avere collegato la parte più consistente della remunerazione di Marchionne a obiettivi a lungo termine sembra aver garantito anche agli azionisti un consistente incremento di valore.

Meno brillante il caso Luxottica: Massimo Vian gode di una componente fissa (1,1 milioni) e di un bonus annuale su obiettivi di breve (altri 1,1 milioni) relativamente modesti se confrontati ai 7,15 milioni di euro che il manager potrà intascare nel marzo del prossimo anno grazie agli inventivi a medio-lungo termine previsti dal piano industriale 2015-2017, cui si sommeranno altri 3,9 milioni se il manager sarà ancora al suo posto alla scadenza dell’attuale piano industriale 2016-2019. Ma rispetto al primo gennaio 2015 il titolo, pur se in crescita (47,75 euro contro i 45,31 euro di 34 mesi fa), è lontano dai massimi storici visti nel luglio dello scorso anno a 66,65 euro per azione.

Un Ceo “economico”, si fa per dire, come Jean-Pierre Mustier (1,2 milioni di compenso fisso annuo, ma nessun bonus annuo ancorato a obbiettivi di breve termine e 7,7 milioni di controvalore in stock option legate a obiettivi a medio-lungo termine dal piano industriale 2017-2019), dal 30 giugno 206 quando è stato nominato alla guida di Unicredit è già riuscito a far quasi raddoppiare (+86% circa) le quotazioni del titolo in borsa e dunque conferma che non sempre il manager più pagato è quello che garantisce la maggiore creazione di valore per gli azionisti, anzi.

Controprova: Francesco Starace, Ceo di Enel, con 1,15 milioni di retribuzione annua fissa, altri 1,4 circa di bonus annuo legato a obiettivi di breve termine e poco più di 1,6 milioni di bonus a lungo termine pagabile per il 30% nel 2020 e per il 70% nel 2021 (dunque con una retribuzione complessiva molto equilibrata tra breve e medio-lungo periodo), dal maggio 2014 (data della sua nomina) a oggi ha visto le quotazioni del titolo Enel salire in borsa di un 25% circa (agli attuali 5,07 euro), pur a fronte di un costo dell’energia che è sostanzialmente rimasto stabile nel periodo oscillando dai 18,98 euro per kilowattora del secondo trimestre 2014 ai 17,91 euro/kwh del secondo trimestre 2016, fino ai 19,59 euro/kwh attuali.

Luca Spoldi

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