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Economia
Borse incerte negli Usa e in Ue. Meglio investire sugli emergenti

I mercati finanziari cercano sempre di anticipare le tendenze, così il varo di una  manovra fiscale iperstimolante in condizioni di pieno impiego e ciclo maturo, con conseguente rischio di esplosione dell’inflazione e di ulteriori rialzi dei tassi stanno spingendo molti investitori ad alleggerire le posizioni sull’azionario americano per riposizionarsi sulle borse europee. Da inizio anno al 21 febbraio, ad esempio, i fondi azionari Usa hanno subito un deflusso netto di 22 miliardi di dollari, in buona parte “intercettato” dai fondi azionari europei, che nello stesso periodo hanno segnato un afflusso netto di 15 miliardi.

In Europa, tuttavia, le elezioni italiane del 4 marzo e il lungo processo di avvicinamento alla Brexit in Gran Bretagna contribuiscono a generare ulteriore incertezza su mercati che hanno già riscoprendo la volatilità dopo otto anni di crescita pressoché ininterrotta e senza scosse. Visto che i tassi che negli Stati Uniti crescono in Europa hanno comunque smesso di scendere, anche “parcheggiare” i capitali su strumenti obbligazionari espone a qualche rischio, perché nel caso di titoli a breve termine (o fondi monetari) i rendimenti sono ancora negativi, mentre sui titoli a lungo termine i prezzi sono molto elevati, i rendimenti reali modesti e il rischio di perdite in conto capitale nei mesi a venire sta crescendo. Che fare dunque?

Un’alternativa sempre più frequentemente segnalata dalle principali case d’investimento è ampliare i propri orizzonti e inserire in portafoglio, se non lo si è ancora fatto, una percentuale di investimenti in azionario (e obbligazionario) emergente. Secondo Dara White, Responsabile globale azioni emergenti di  Columbia Threadneedle Investments, i mercati azionari emergenti dopo avere arrancato rispetto ai mercati azionari sviluppati fin dalla crisi finanziaria globale (dal 2012 sino a tutto il 2017 l’indice Msci Emerging Markets è rimasto sotto l’S&P 500 di oltre 80 punti percentuali, nonostante un rialzo del 37% segnato lo scorso anno) possono ora recuperare terreno.

In questi anni tali mercati sono molto cambiati, del resto: dieci anni fa i titoli di maggior peso erano colossi statali operanti in settori ciclici come Gazprom, Petrobras o PetroChina, mentre oggi sono gruppi come Alibaba, Tencent e Samsung, “aziende di qualità più elevata che generano un rendimento del capitale investito (Roic) superiore” e pertanto sono degne “di multipli decisamente più elevati”. Così anche se l’aumento dei tassi a livello mondiale, un dollaro che potrebbe rafforzarsi e un rallentamento della crescita della Cina sono fattori di rischio da tenere d’occhio questa volta i mercati emergenti potrebbero stupire positivamente grazie in particolare ad un andamento degli utili che potrebbe ripetere quanto visto lo scorso anno.

All’inizio del 2017, ricorda l’esperto, l’aspettativa di crescita degli utili per l’azionario emergente era in media del 15%, ma a fine anno la crescita è risultata a seconda dei mercati e dei settori tra il 25% e il 30%: “prevediamo una dinamica simile di revisione al rialzo anche per il 2018” conclude White. L’unica vera incognita, anche in questo caso, è di natura politica. Il presidente americano Donald Trump anche in vista delle elezioni di metà mandato del prossimo ottobre sta accelerando col varo delle misure protezionistiche più volte promesse in campagna elettorale. Vero o meno che sia la percezione degli elettori di Trump, del resto, è che gli Usa abbiano perso la propria leadership in molti settori a causa di una concorrenza “sleale” proprio da parte di alcuni paesi emergenti come Messico, Cina o Russia.

Le tariffe finora applicate dagli Usa alle importazioni sono del resto tre le più basse al mondo (sono inferiori solo in una manciata di paesi tra cui l’Australia, la Nuova Zelanda, Singapore e Hong Kong), sicché una loro revisione non potrà che essere comunque al rialzo. Già a gennaio Trump ha imposto dazi del 30% sull’import di pannelli solari e del 20% sulle lavatrici, mentre è di questi giorni la proposta avanzata dal Dipartimento del Commercio Usa alla Casa Bianca di introdurre dazi o tetti alle importazioni di alluminio e acciaio. Così Patrick Zweifel, capo economista di Pictet, si è chiesto quali possano essere i paesi più “a rischio” di essere colpiti dai nuovi dazi Usa. Il maggiore deficit commerciale americano per singolo paese è di gran lunga quello con la Cina (375 miliardi di dollari l’anno, vale a dire quasi un quarto dell’intero debito pubblico italiano), ma le esportazioni cinesi verso gli Usa rappresentano appena il 3,6% del Prodotto interno lordo cinese.

Molto più a rischio, da questo punto di vista, sono il Messico, che dalle esportazioni verso gli Stati Uniti ricava il 29,3% del proprio Pil, il Vietnam (19,5% del Pil) e Hong Kong (12,5%), seguiti da paesi come Singapore, Malesia, Taiwan, Tailandia e Israele, con quote superiori al 10% del Pil. In Europa rischiano contraccolpi legati ai nuovi dazi commerciali Usa paesi come Ungheria, Repubblica Ceca, Croazia e Polonia, ma in ogni caso per tutti loro l’export americano pesa tra il 3% e il 2% del Pil. Se però si guarda a quali siano le economie più coinvolte nella “catena del valore”, ossia nel grande flusso in ingresso e in uscita di materie prime, semilavorati e prodotti finiti che chiamiamo globalizzazione, si scopre che è Taiwan (con un 67% del proprio export coinvolto nella “catena del valore”, ossia nella globalizzazione) il paese più a rischio, seguito dall’Ungheria, dalla Repubblica Ceca, dalla Corea del Sud e da Singapore, tutti con oltre il 60% di coinvolgimento.

Potrebbe quindi essere opportuno cercare di investire non genericamente sui mercati emergenti, ma su quelli meno esposti a eventuali contraccolpi dovuti alla politica commerciale di Trump, come l’India o il Brasile, ad esempio attraverso ETF come Lyxor Msci India o iShares Msci India, piuttosto che Lyxor Brazil o iShares Msci Brazil. Un’ultima annotazione: se per caso ve lo state chiedendo, l’Italia è “coinvolta” nella globalizzazione per meno del 50% del proprio export, al pari di paesi come Stati Uniti e Giappone, piuttosto che Svizzera, Olanda, Spagna e Francia. Così probabilmente il mercantilismo trumpiano non farà troppo male all’export italiano e in qualche caso (Tenaris nell’acciaio, Buzzi nel cemento, Fca nell’automobile) potrebbe persino fare bene a quelle nostre aziende che già dispongono di impianti di produzione e reti distributive negli Stati Uniti.

 

 

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