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Economia
Braccio di ferro Usa-Cina, Trump rischia grosso

Finora Donald Trump ha adottato una tattica negoziale molto dura, fatta di tweet minacciosi, cui sono spesso seguiti innalzamenti unilaterali dei dazi su importazioni da vari paesi, Cina in particolare. Salvo poi aprire tavoli negoziali e in alcuni casi (Messico) raggiungere rapide intese. Wall Street, nonostante l’iniziale contrapposizione tre il presidente americano e i colossi high-tech della Silicon Valley, ha retto piuttosto bene: da inizio anno l’indice S&P500 guadagna ad esempio il 15,16%.

Ma più il braccio di ferro su alluminio, acciaio, automobili e altri beni importati negli States prosegue, più si iniziano a sentire i contraccolpi anche all’interno dell’economia americana “profonda”, quella che sin dalla sua elezione è stata a favore dell’azione del presidente. Secondo la società di consulenza Trade & Partnership, ad esempio, la liberalizzazione degli scambi mondiali dal 1992 al 2017 ha fatto salire negli Usa da 14,5 a 39 milioni i posti di lavoro collegati all’inport-export commerciale.

Posti che, così come il giro d’affari e gli utili di molte aziende, sono ora a rischio anche perché, hanno aggiunto gli esperti di Trade & Partnership, esiste in generale una correlazione positiva tra l’apertura del commercio e la crescita economica americana, il che è logico visto che il 60% circa delle importazioni americane sono materie prime, beni capitali e prodotti industriali utilizzati da aziende americane e ditte agricole per produrre beni negli Usa.

Spiega  Arif Husain, Head of International Fixed Income di T. Rowe Price: in un contesto di crescita fragile, i dazi voluti da Trump “hanno il potenziale per deprimere ulteriormente il momentum, data la loro tendenza ad agire come un meccanismo di tightening finanziario”. Rincara la dose  Marko Kolanovic, responsabile della strategia quantiativa e dei derivati di Jp Morgan: “l’economia americana sta affrontando una situazione alquanto singolare in cui un singolo individuo può interrompere il commercio globale e i piani di investimento delle società statunitensi, imporre tasse su un’ampia gamma di importazioni e così via”.

Non solo: ad ogni azione risponde sempre una reazione di segno uguale e contrario. La Cina, messa sotto tiro da dazi di Trump, ha risposto sin dall’inizio con misure “mirate” che hanno colpito una serie di prodotti importati dagli Usa in particolare (il grano o la carne di maiale, ma anche gli aerei di Boeing) da quegli stati del Midwest che votano repubblicano.

Certo, come nota Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners, le aziende americane ormai hanno capito che la nuova produzione e le nuove tecnologie dovranno nascere negli Usa o in paesi a loro geopoliticamente vicini e che alla Cina verranno riservati gli investimenti necessari per vendere in Cina, non più per riesportare. Si è infatti ormai capito che “l’età dell’illusione” (quella americana di avere nella Cina un grande mercato da conquistare, quella cinese di avere a sua volta nell’America un grande mercato di sbocco per le sue merci) è tramontata e il mondo, piaccia o meno, si va dividendo nuovamente in blocchi.

Ma questo non significa che si potranno tagliare del tutto i ponti e alzare muri come nel XX secolo, quanto meno non senza pesanti conseguenze, che a “corporate America” non piacciono. Da qui le sempre più diffuse proteste contro il modo di fare politica commerciale di “the Donald” anche da parte di aziende e stati dell’America “profonda”, da Wal-Mart a Target, che con una lettera hanno chiesto all Casa Bianca di non proseguire una guerra commerciale che secondo le stime di Trade Partnership potrebbe costare fino a 2,23 milioni di posti di lavoro persi, l’1% del Pil e maggiori costi per le famiglie americane per quasi 2.400 dollari l’anno.

Nel dettaglio, a fronte di 236 mila posti di lavoro in più per l’industria (di cui oltre la metà nell’elettronica da consumo) si perderebbero quasi 2,4 milioni di posti di lavoro nei servizi (mezzo milione nella grande e piccola distribuzione, 426 mila nelle costruzioni, 330 mila nei servizi per le industrie, oltre 130 mila in quelli per le famiglie) ed oltre 86 mila nell’agricoltura, foreste, pesca ed attività minerarie.

Tra gli stati la California subirebbe il danno peggiore (fino a quasi 250 mila posti di lavoro persi), ma anche il Texas (quasi 200 mila) la Florida (145 mila posti di lavoro in meno) e lo stato di New York (143 mila posti di lavoro persi) non se la passerebbero bene. Solo le Hawai, con 12 mila posti di lavoro in più, potrebbero legittimamente fare il tifo per una guerra commerciale secondo le stime degli esperti: un po’ poco per un presidente che tra un anno si gioca la rielezione. Rielezione che in America dipende spesso dal sostegno offerto dalle grandi aziende.

Per quanto questo venga solitamente distribuito tra i due sfidanti, così da evitare di trovarsi alla Casa Bianca un presidente apertamente “ostile”, sarà difficile che possano offrire un appoggio convinto e incondizionato gruppi come Amazon, Boeing (China Aircraft ha sospeso una commessa da 100 aerei del valore di circa 5,8 miliardi di dolari), Google (che dopo aver interrotto i servizi a Huawei sta spostando fuori dalla Cina la produzione di nest e hardware per server, col rischio di perdere definitivamente il mercato cinese), Verizon (cui la stessa Huawei ha chiesto un miliardo di dollari di pagamenti per royalties su propri brevetti) o Microsoft (che potrebbe a sua volta dover dire addio alla vendita  di Windows in Cina).

E’ in fondo il problema delle guerre: anche quando vengono combattute per motivazioni che appaiono “giuste”, finiscono sempre col produrre danni a entrambe le parti. E come ricorda Alessandro Fugnoli, in una guerra “spesso vince non chi ha meno da perdere, ma chi è più disposto a sopportare le perdite, per grandi che siano”. Che siano maggiormente disposti gli Stati Uniti a poco più di un anno dalle nuove elezioni presidenziali anziché la Cina è un’ipotesi che ancora deve trovare conferma.

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