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Economia
Brexit: crollo della sterlina. Aggiorna i nuovi minimi dal 1985 sul dollaro

Un cambio sterlina/dollaro sotto quota 1,30 non lo si vedeva da 31 anni: lo si è ritrovato sul valutario stamane, quando la divisa britannica ha toccato un minimo di 1,2796 contro il biglietto verde, prima di rimbalzare debolmente a 1,2981. Il tutto nonostante ieri la Bank of England abbia tagliato da 0,5% a zero il Countercyclical Capital Buffer “almeno” fino al giugno del prossimo anno, un provvedimento che ridurrà i requisiti di capitale di 5,7 miliardi di sterline aumentando di 150 miliardi la capacità di prestito delle banche britanniche, nel tentativo di ridurre i timori sulle pesanti ripercussioni che la Brexit avrà sulla crescita britannica ma anche europea e mondiale. Chi voleva una controprova dei rischi di uscite “unilaterali” da accordi geopolitici, economici o valutari è servito e, secondo gli esperti, ormai c’è poco da arrestare la caduta della valuta britannica: l’esperienza storica insegna che quando vi sono, come nel caso attuale, ampi movimenti ribassisti legati alla ristrutturazione del profilo di esposizione verso il rischio-paese da parte degli investitori, la svalutazione (ma anche il calo degli indici borsistici) è rapida e duratura.

Se la Brexit, come si era ampiamente detto e scritto, inutilmente, prima del referendum del 23 giugno scorso, era ed è lo scenario peggiore possibile, chi rischia di più a Piazza Affari e chi, eventualmente, può sperare di approfittare delle difficoltà di banche e aziende britanniche? Se con la sterlina debole la Gran Bretagna può sperare di ridurre i danni della Brexit, questa opzione non è disponibile per paesi periferici di Eurolandia come Portogallo, Grecia, Spagna e Italia, che dunque tornano a scontare un più elevato premio per il rischio. L’incertezza sul referendum di ottobre aggiunge una ulteriore componente di debolezza specifica per l’Italia e minaccia di far rinviare ulteriormente decisioni di investimento che faticosamente si stavano iniziando a concretizzare dopo anni di recessione o crescita strisciante.

Colpiti dal crollo della sterlina rischiano di essere anzitutto i settori del turismo e del trasporto: l’Europa (e l’Italia) sta diventando ogni giorno più cara per gli inglesi e se per questa stagione probabilmente i danni saranno limitati, le cose rischiano di farsi serie già da dall’autunno-inverno, quando si inizieranno a raccogliere gli ordini per la prossima stagione. A medio termine le conseguenze sui mercati europei (e tra i settori di Piazza Affari) non saranno uniformi e potranno essere avvantaggiate i titoli di società a più elevata capitalizzazione come pure ai titoli non ciclici, oltre a quei settori le cui valutazioni si sono già ridotte da tempo e che sono relativamente a buon mercato.

Meglio dunque puntare su Eni, Saipem (che da qualche tempo ha ripreso a macinare nuove commesse e che non esclude di sfruttare eventuali “occasioni di mercato” per fare shopping, anche all’estero) o Tenaris che non su banche come Mps, Carige o Unicredit, che temono ulteriori stimoli monetari e risentono di specifiche debolezze che la Brexit ha contribuito a far detonare definitivamente, piuttosto che su gruppi del risparmio gestito come Anima, FinecoBank, Mediolanum e Azimut, che rischiano di risentire delle tensioni sui mercati finanziari e dei flussi di disinvestimento che queste potrebbero generare.

Per lo stesso motivo alla larga dai titoli ciclici come l’immobiliare, le costruzioni, le telecomunicazioni o i media: in quest’ultimo caso già ora si notano segnali negativi relativi all’andamento della raccolta pubblicitaria, sicché Mediaset, ma anche Cairo Communications (impegnata nel braccio di ferro su Rcs Mediagroup) potrebbero tornare a perdere appeal. Il lusso italiano ugualmente si trova in una fase delicata: è vero che l’esposizione diretta dei nostri principali gruppi quotati è relativamente modesta in Gran Bretagna, ma un calo dei flussi turistici e più in generale una nuova frenata dell’economia europea non può certo giovare.

Prova ne sia che le quotazioni di titoli come Moncler, Yoox Net a Porter, Brunello Cucinelli, Salvatore Ferragamo, Geox o Tod’s in questi giorni non sono certamente migliorate. Chi invece ha migliorato le sue quotazioni è Campari, che dagli 8,66 euro per azione del 23 giugno è salito sino a 8,88 euro prima di tornare in area 8,69 euro. Il gruppo piemontese ha chiuso pochi giorni prima del referendum britannico l’Opa su Grand Marnier con adesioni pari al 50,74%, per un importo di poco superiore ai 347 milioni di euro. Il controllo di Campari su Grand Marnier sfiora così il 70%, ma in concerto con l’azionista storico, la famiglia Marnier Lapostolle, il gruppo italiano può contare su una quota oscillante tra il 95% e il 98% dei voti a seconda della tipologia di assemblea.

Come dire che ora l’impegno dovrà essere quello di integrare nel miglior modo possibile la prestigiosa etichetta nell’offerta commerciale di Campari e farla fruttare. Parmalat, Marr e La Doria potrebbero a loro volta ben performare, almeno in termini relativi, ma in questo caso la capitalizzazione meno elevata rischia di contribuire a una maggiore volatilità.

Luca Spoldi

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