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Economia
Carige e i nodi irrisolti per i risparmiatori

Il commissariamento di Carige mette una pezza alla situazione di grave crisi della banca. Il governo si è rassegnato a utilizzare denaro pubblico, in aperta contraddizione con la retorica anti-finanza. Resta il problema del ristoro dei risparmiatori eventualmente coinvolti nel burden sharing.

La crisi e le prospettive di Carige

L’anno nuovo si è aperto col botto sul fronte bancario. Con una decisione senza precedenti, la Banca centrale europea ha deciso di “commissariare” l’italiana Carige, sostituendo il consiglio di amministrazione (peraltro largamente dimissionario) con tre commissari straordinari e un comitato di sorveglianza, nominati dalla stessa Bce. La finalità del provvedimento è quella di “assicurare che la banca ripristini il rispetto dei requisiti patrimoniali in modo sostenibile” (si veda il comunicato della Bce). Carige è una banca che ha “bruciato” diversi aumenti di capitale: “fra il 2014 e il 2017 Carige ha già avuto ricapitalizzazioni per 2,7 miliardi, mentre oggi la sua capitalizzazione in borsa non supera i 100 milioni” (si veda l’articolo di Rony Hamaui). L’ultimo aumento di capitale per 400 milioni era stato proposto il mese scorso dal Consiglio di amministrazione fresco di nomina, ma respinto dalla assemblea degli azionisti alla vigilia di Natale. Nel frattempo, il rispetto dei requisiti patrimoniali imposti dalla Bce (per il 2018) è stato affidato all’emissione di un bond subordinato, convertibile in azioni, sottoscritto interamente (per 320 milioni) dal “braccio volontario” del Fondo interbancario per la tutela dei depositi (Fitd), cioè dalle altre banche italiane, che si sono tassate per evitare guai peggiori.

Quali sono adesso le prospettive di Carige? È prevedibile che i commissari straordinari cerchino in primo luogo di portare a termine l’aumento di capitale, andato in fumo prima di Natale, eventualmente anche grazie alla conversione del bond subordinato in azioni. Tuttavia, non è affatto detto che ciò sia sufficiente ad assicurare la stabilità della banca in un orizzonte temporale più lungo, tenendo conto delle perdite che continua ad accumulare. Sembra evidente che una soluzione più drastica vada trovata. L’opzione sul tappeto, caldeggiata anche dalla Bce, è la ricerca di un’altra banca disposta ad acquistare Carige. Ma a supporto dell’operazione potrebbe rendersi necessaria una iniezione di denaro pubblico, come è già avvenuto per le due banche venete: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, il cui acquisto da parte di Intesa Sanpaolo è avvenuto grazie al fatto che il Tesoro ha staccato a favore dell’acquirente un assegno di 5 miliardi (si veda qui per una ricostruzione di questo e di altri salvataggi bancari nostrani). L’ipotesi di una fusione con il Monte dei Paschi di Siena, circolata nei giorni scorsi e attribuita a fonti governative, sembra assai strampalata: sia perché Mps è a sua volta impegnato in una difficile fase di risanamento, sia perché avrebbe ben poche possibilità di essere approvata dalla Commissione europea. Più realistica sembra la strada di cedere buona parte dei crediti deteriorati alla Sga, Società di gestione degli attivi di proprietà del Tesoro, già impegnata in una operazione di questo tipo per le due banche venete.

Per ora non ci sarà bail-in

Alcuni depositanti e obbligazionisti di Carige si staranno chiedendo se il commissariamento della banca preluda a una forma di bail-in. La risposta è: per ora no, ma in futuro ciò potrebbe avvenire. Secondo la direttiva europea Bank Recovery and Resolution Directive (Brrd), il commissariamento fa parte di quelle misure di intervento tempestivo (“early intervention”) volte a evitare la procedura di risoluzione, che a sua volta può comportare il bail-in di alcuni strumenti finanziari emessi dalla banca, secondo il noto ordine: azioni, obbligazioni subordinate, obbligazioni ordinarie, depositi (oltre i 100 mila euro). Il punto è che, se i commissari non dovessero riuscire nel loro intento, la Bce sarebbe prima o poi costretta a dichiarare la banca “failing or likely to fail” (“in dissesto o a rischio dissesto”), passando la palla al Single Resolution Board (Srb). Questo, a sua volta, potrebbe decidere di avviare la risoluzione, qualora ritenga che ciò sia nell’interesse pubblico, oppure rimandare la gestione della crisi alla procedura nazionale. In quest’ultimo caso, si aprirebbe la strada della liquidazione, che potrebbe avvenire salvando gli sportelli della banca (che verrebbero ceduti a un’altra banca, sul modello dei due istituti veneti) e imponendo costi agli azionisti e obbligazionisti subordinati, in omaggio al principio europeo del burden-sharing (condivisione degli oneri).

Finora, la gestione della crisi di Carige è rimasta nelle mani delle autorità di vigilanza (Bce e Banca d’Italia) e il costo del salvataggio è stato confinato all’interno del sistema bancario, con l’intervento del Fitd. Tuttavia, se quanto fatto finora dovesse rivelarsi insufficiente, il governo italiano dovrà entrare nella partita, come è stato per gli altri casi di crisi recenti, e prepararsi a versare denaro pubblico per evitare il fallimento vero e proprio di Carige. Sarà bene che agisca tempestivamente e secondo una strategia precisa. Non sarà facile per una maggioranza governativa che ha fatto degli anatemi contro i poteri forti della finanza una delle sue bandiere populiste. Se il governo procedesse con l’improvvisazione e le contraddizioni che lo hanno caratterizzato finora, sarebbero guai seri: la fuga dei depositanti sarebbe un esito assai probabile, e la crisi della banca potrebbe precipitare rapidamente.

Aggiornamento all’8 gennaio:

Il decreto “salva-Carige”

Il decreto-legge approvato in tutta fretta dal governo nella sera del 7 gennaio introduce un forte elemento di novità nel quadro descritto più sopra (la parte precedente dell’articolo era stata scritta prima che il decreto fosse emanato). Con una svolta notevole rispetto alla dichiarazioni fatte in precedenza, il governo ha deciso di intervenire a sostegno di Carige, utilizzando gli stessi strumenti impiegati dai governi precedenti, tanto criticati dall’attuale maggioranza. Si tratta di due strumenti:

“Viene prevista la possibilità per la banca di accedere a forme di sostegno pubblico della liquidità che consistono nella concessione da parte del Ministero dell’economia e delle finanze della garanzia dello Stato su passività di nuova emissione ovvero su finanziamenti erogati discrezionalmente dalla Banca d’Italia”.
“Viene inoltre prevista la possibilità per l’Istituto di accedere – attraverso una richiesta specifica – a una ricapitalizzazione pubblica a scopo precauzionale”.
Il primo strumento consente alla banca di fronteggiare una eventuale crisi di liquidità, dandole la possibilità di finanziarsi con la garanzia dello Stato. Il secondo prefigura una sostanziale nazionalizzazione della banca, analoga a quanto è avvenuto con il Monte dei Paschi di Siena. Sono provvedimenti nella sostanza condivisibili, ma che pongono almeno due ordini di problemi, data la posizione politica che la maggioranza gialloverde ha sempre avuto (finora) sui temi bancari.

Il primo problema è politico. Il decreto rappresenta un evidente dietro-front rispetto alle precedenti posizioni dei due partiti di maggioranza, soprattutto dei 5 stelle. Come sarà accolto dai sostenitori dei due partiti e dai parlamentari che dovranno convertirlo in legge? Assisteremo al solito balletto di dichiarazioni contraddittorie?

Il secondo problema è più tecnico. L’eventuale intervento pubblico nel capitale di Carige comporterebbe l’applicazione del burden sharing, a carico degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati della banca. I governi precedenti avevano previsto, in casi analoghi, forme di “ristoro”  per gli obbligazionisti. L’attuale governo ha promesso di rafforzare tali forme di ristoro, estendendole agli azionisti delle banche entrate in crisi. Ora, il mantenimento di questa promessa si scontra con la necessità di trovare i fondi, necessari per rimborsare azionisti e obbligazionisti di Carige eventualmente coinvolti nel burden sharing. Ma soprattutto sarebbe ben difficile fare approvare alla Commissione Ue quello che sarebbe un palese raggiro delle regole europee: con una mano gli azionisti e obbligazionisti subordinati verrebbero chiamati a condividere gli oneri del salvataggio della banca, con l’altra verrebbero rimborsati a carico dello stato. Mentre la Commissione è stata disponibile ad accettare questa contorsione per i risparmiatori a cui sono stati subdolamente venduti bond subordinati come obbligazioni normali (misselling), sarebbe assai più restia ad accettarla per coloro che hanno comprato azioni sul mercato.

*Da Lavoce.info

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