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Economia
Caltagirone, re Mida di Piazza Affari. Tocca la finanza ma non è oro

Di Luca Spoldi

E’ da sempre considerato uno dei “re di denari” di Piazza Affari, perché Francesco Gaetano Caltagirone negli anni, oltre alle sue attività principali nel cemento, nelle grandi opere e nell’editoria (Cementir, Vianini Lavori e Caltagirone Editore), ha investito anche parte del suo patrimonio su “pezzi da novanta” come UniCredit, Assicurazioni Generali e Acea, non sempre con risultati all’altezza delle aspettative.

Partiamo da Acea: nella municipalizzata romana Francesco Gaetano Caltagirone dopo essere arrivato ad un picco del 16,361% a fine 2012 (avendo superato la soglia del 2% nel luglio del 2002) ha iniziato a limare la quota sino all’attuale 15,856%.La storia “d’amore e d’interesse” si è svolta con una successione di acquisti sul mercato distribuiti nell’arco di oltre un decennio. Salito al 5,029% nell’agosto del 2008, con successive operazioni datate 2009 (tre “blitz” in marzo, aprile e settembre), 2010 (quattro colpi tra aprile e ottobre), 2011 (altre due puntate) appunto 2012, Caltagirone era arrivato al 16,361%, prima di iniziare una lenta discesa anche a causa dei contrasti emersi con la giunta Marino. Se il buon giorno si vede dal mattino la giunta Raggi potrebbe dare ulteriori dispiaceri all’imprenditore romano: si vedranno ulteriori limature della quota in Acea?

Di certo Francesco Gaetano Caltagirone opera in un’ottica di lungo periodo e sfrutta con pazienza sia le fasi di ribasso per ridurre il prezzo di carico, sia eventuali strappi al rialzo per alleggerire le posizioni. Nel caso di Acea i primi acquisti vennero fatti con quotazioni scese tra i 5,4 e i 5 euro a titolo, nel 2008 il titolo era già salito molto ma stava scendendo tra gli 11 e i 10 euro (contro un picco di 16,5 euro toccato a fine maggio 2007), nel marzo 2009 in piena tempesta finanziaria mondiale il titolo passò dai 10 ai 9 euro ma con un minimo di 7,8 euro per azione nel corso del mese. Prezzi ancora più bassi, tra i 7,9 e i 7,4, nell’aprile 2010, poco di più a giugno (7,9-8 euro) e ad ottobre (8-8,5) grazie ad una fase di relativa stabilità delle quotazioni.
Nel 2011 il titolo tornò a cedere terreno e dagli 8,5-8,7 euro di inizio anno terminò sui 4,9 euro a fine dicembre. Nel 2012 il titolo toccò i minimi storici attorno a 3,8-3,85 per due volte, per poi iniziare lentamente a recuperare terreno chiudendo l’anno a 4,55 euro. Da quel momento il titolo è salito sino ai massimi di metà gennaio scorso (14,27 euro) nuovamente sfiorati a metà marzo (14,25 euro). La strategia borsistica di Caltagirone è stata dunque pressoché perfetta ed il valore della partecipazione è così salito dai circa 22-25 milioni iniziali del 2002 agli oltre 353 milioni attuali, avendo il costruttore romano già iniziato a prendere profitto per una decina di milioni di euro.

Meno brillanti sono state altre operazioni in ambito prettamente finanziario. Caltagirone iniziò a “flirtare” con la finanza ai tempi del “affare Bnl”, rilevando un pacchetto del 13,55% di Bnl, sotto scalata da parte dei “pattisti” Bbva-Generali-Della Valle, pacchetto poi legato nel “contropatto” con i “furbetti del quartierino” (Danilo Coppola, Giuseppe Statuto, Vito Bonsignore, Ettore Lonati e Giulio Grazioli). In tutto un 24% circa di Bnl proposto a Giuseppe Mussari, in quel momento dominus di Mps, che però declina l’invito ritenendo il prezzo richiesto eccessivo. Poco male, a comprare è poi Unipol che aveva lanciato una contro-Opa concorrente a quella lanciata da Bbva su Bnl. La vicenda si conclude con l’intervento della magistratura, le dimissioni dell’allora Governatore di Banca d’Italia, Antonio Fazio, lo stop all’Op di Unipol e il successivo lancio e successo dell’Opa di Bnp a 2,925 euro per azione.

La vicenda lasciò uno strascico giudiziario aperto per anni, ma diede a Caltagirone una plusvalenza di 250 milioni e consolidò i rapporti con la dirigenza di Mps, banca in cui il costruttore romano entrò nel 2005 salendo prima al 2,8%, quota che gli consentì di entrare nel Cda di Rocca Salimbeni (di cui dal 2006 sarà il vicepresidente), poi fatta salire sino al 4,2%. Con l’aumento di capitale da 5 miliardi (a 1,5 euro per azione) del 2008 l’imprenditore romano sale dal 4,2% al 4,7%, quota confermata partecipando al successivo aumento (da 2 miliardi, a 44,6 centesimi di euro per azione) del 2011. Poi improvvisamente tra la fine del 2011 e il gennaio 2012 l’uscita rapida anche a costo di una cospicua minusvalenza (i titoli erano ancora in carico tra gli 0,8 e 1 euro per azione, vennero venduti tra 0,2 e 0,3 euro per azione).

Motivi? A distanza di anni lo stesso Caltagirone ha parlato di divergenze “strategiche” con la dirigenza di Mps, di eccessiva esposizione ai titoli di stato, delle norme sulla incompatibilità per chi rivestiva cariche di amministratore (nel frattempo l’imprenditore romano era entrato in Generali), ma è chiaro che l’allontanamento di Mussari non deve aver giovato ai tanti “altri business” che l’operazione Mps aveva generato, in particolare nel settore immobiliare, sia attraverso finanziamenti (a Cementir) e mutui fondiari (alla Immobiliare Caltagirone) sia attraverso la cessione di immobili di pregio (da Antonveneta/Mps Immobiliare a Immo 2006 srl, una delle tante immobiliari controllate indirettamente dallo stesso Caltagirone).

Uscito da Mps, Caltagirone ha una visione, puntare su Unicredit sfruttando l’aumento di capitale del 2012 da 7,5 miliardi (a 1,943 euro per azione, con uno sconto del 43% sul Terp) per acquistarne circa l’1%, per due motivi: perché il titolo “era sceso talmente” che “aveva molte più possibilità di rimbalzare” di Mps e perché “mentre Mps è una banca unicamente italiana e l’Italia era entrata nel tunnel di questa crisi, Unicredit ha il 70% delle attività all’estero”. Anche in Unicredit Francesco Gaetano Caltagirone riesce a entrare in sintonia con alcuni dei “poteri forti”, come la Fondazione Crt, socia al 2,52%, guidata da Fabrizio Palenzona, oltre naturalmente a Generali (socia allo 0,42%). Col titolo che veleggia attorno a 1,91 euro per azione dopo aver sfiorato i 7 euro  nel 2014, non si può dire che l’investimento, che attualmente vale poco meno di 110 milioni di euro, abbia dato grandi soddisfazioni, ma certo rispetto a Mps (crollata in termini rettificati dai 5,8-5,9 euro del gennaio 2012 agli 0,2795 euro attuali) la scelta di cambiare cavallo è stata quanto meno azzeccata.

E Generali? Quello col Leone di Trieste è un altro rapporto di lunga data: i primi accenni risalgono al 2002 quando Immobiliare Caltagirone incorpora Commercial 8 e Commercial 4, due immobiliari cui Investire Immobiliari a fine 2003 aveva rivenduto immobili acquistati nel luglio di quell’anno da Generali Properties. Nell’assicurazione triestine Caltagirone entra poi direttamente come azionista (inizialmente con una quota attorno all’1%) e poi consigliere di amministrazione (dall’aprile 2007) e vice presidente (dall’aprile 2010). Da allora la quota è via via lievitata sino a superare il 3% nell’aprile di quest’anno, per poi continuare ancora fino in queste ultime settimane, in piena “tempesta Brexit”. Attualmente col 3,37% il costruttore romano è il secondo socio di Generali, alle spalle dell’azionista di controllo, Mediobanca, avendo superato anche Leonardo Del Vecchio (il “patron” di Luxottica è fermo al 3,16%), con un investimento che vale circa 517 milioni di euro.

Gli ultimi acquisti hanno certamente consentito a Caltagirone di limare un prezzo di carico che ancora a fine 2013 si aggirava sui 14,5 euro, ma le attuali quotazioni (10,6 euro) non possono certamente soddisfare l’imprenditore romano, che con Leonardo De Vecchio era stato tra i più forti sostenitori dell’ex numero uno Mario Greco, chiamato alla guida dell’assicurazione triestina nel 2011 per sostituire Giovanni Perissinotto ma poi entrato in collisione con Alberto Nagel (numero uno di Mediobanca) e Lorenzo Pelliccioli (plenipontenziario delle famiglie Boroli-Drago che pure era stato tra fautori del suo ingresso in Generali).
Sullo sfondo una “divergenza strategica” non ancora chiarita che alcuni imputano alla volontà di Greco di provare a far crescere di taglia Generali attraverso qualche importante acquisizione, idea che non sarebbe stata a priori scartata dagli azionisti italiani (mentre ha sempre lasciato più freddi i soci esteri, a partire da Vincent Bollorè), Mediobanca e DeAgostini compresi, ma che forse si sarebbe voluta indirizzare più verso il settore bancario, per approfittare dei “saldi di stagione” dei questi ultimi anni. La contrarietà di Greco avrebbe portato poi alla sua uscita di scena e all’arrivo di Philippe Donnet.

Chissà se Donnet ora non riaprirà il dossier-banche, ammesso che ve ne sia mai stato uno in quel di Trieste, contribuendo così a far recuperare quota sia al titolo Generali sia, eventualmente, al settore bancario italiano, Unicredit compresa? Di sicuro qualcuno a Roma, abituato a mescolare con abilità trading borsistico personale al “business” storico delle proprie aziende, non sarebbe contrario all’ipotesi.

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