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Economia
Food delivery, è caos normativo: da Amazon ai rider robotizzati

Quello dell’home delivery o, per essere più esatti, del food delivery – e cioè della consegna a casa o in ufficio di caffè e cornetto o di un pasto completo e sofisticato appena uscito dalle mani di un grande chef – è ormai anche in Italia il settore economico che in questi ultimi due-tre anni ha avuto la più grande espansione, con una progressione addirittura geometrica, sia in termini di valore economico che di persone coinvolte. La mancanza di tempo e il desiderio di avere tutto e subito è alla base di un fenomeno che dieci-quindici anni fa si limitava a chiedere al bar o al negozio sotto casa il “favore” di avere, possibilmente in poco tempo, la colazione o un cartone di pizza. Secondo un recente sondaggio in Italia l’80% dei circa 5 milioni di persone che hanno chiesto almeno una volta la consegna di cibo a domicilio lo ha fatto nel corso del 2018 e a questi 5 milioni, sempre secondo il sondaggio, se ne dovrebbero aggiungere a breve altri 8-10. Ma questo fenomeno espansivo, a dir poco inaspettato per rapidità e dimensioni, sembra destinato ad avere un ulteriore boom, come dimostrato dal fatto che pochi giorni fa il gigante dell’e-commerce, AMAZON, è entrato con 575 milioni di dollari nel capitale di Deliveroo che, a sua volta, è la più grande società di consegna di cibo a domicilio, cresciuta del 117% tra il 2017 e il 2018 e che ad oggi si avvale complessivamente di 60.000 riders e “serve” 80.000 ristoranti.

Un grande business per le imprese del settore, derivante non soltanto dalla sua espansione ma anche dalla possibilità di avere a disposizione una manodopera a basso o bassissimo costo. Ed è proprio questo il punto su cui ci si dovrebbe soffermare: la mancanza di adeguate tutele per i riders – o ciclofattorini o, come loro stessi si sono definiti, “braccianti metropolitani” – oggetto, almeno in moltissimi casi, di un vero e proprio sfruttamento che va dalla mancanza di minimi retributivi e di tutela previdenziale alla possibilità di essere “licenziati” con una semplice email, come avvenuto a novembre 2018 per le migliaia di dipendenti di Foodora Italia. Dunque sfruttamento per mancanza di tutele adeguate, economiche e normative, che derivano anche dal fatto che, almeno qui in Italia, non è stato ancora sciolto il nodo del loro inquadramento giuridico e cioè se i riders debbano considerarsi lavoratori autonomi o lavoratori dipendenti.

Il boom di questo particolare tipo di lavoro – consegna di cibo a domicilio in bicicletta o in motorino – deriva dalla flessibilità del rapporto di lavoro tra l’azienda e i riders, una flessibilità che le aziende vorrebbero ancora ampliare e che la maggior parte dei lavoratori è sempre più convinta di voler ridurre o regolamentare. Secondo quanto recentemente evidenziato dai vertici di Deliveroo Italia i tribunali di Francia, Regno Unito, Olanda, Irlanda e Germania considerano (“giustamente”) i riders lavoratori autonomi e così dovrebbe essere, ad avviso di questa società, anche in Italia, tanto più che quello della massima flessibilità del rapporto di lavoro è, sempre secondo Deliveroo Italia, proprio quello che desiderano anche gli stessi riders. A tale ultimo riguardo va però sottolineato che se è vero che i riders volevano, almeno all’inizio, un rapporto di lavoro il più libero ed elastico possibile, sia in termini di impegno che di durata giornaliera e settimanale, è altrettanto vero che questa attività si sta rapidamente trasformando, da “lavoretto saltuario” per avere “qualche soldo in tasca”, in un vero e proprio lavoro, più stabile in termini sia di durata che di necessità di regolamentazione, al punto che in alcune città, tra cui Milano, Bologna e Firenze, si è arrivati, pur senza un adeguato sostegno sindacale, a minacciare veri e propri scioperi o ritorsioni contro le aziende e anche i clienti (a cominciare da quelli “famosi” che non danno la mancia). In queste città si sono di fatto costituite associazioni spontanee di mutuo soccorso (!) tra i riders, che sono riuscite ad ottenere un minimo di tutele e di accordi anche con l’aiuto dei comuni e di alcune regioni (tra cui Lazio e Toscana).

Per ciò che concerne l’aspetto strettamente giuridico va ricordato che le tre sentenze finora avutesi in Italia sulla natura di questi rapporti di lavoro hanno sostanzialmente concordato nel considerarli non subordinati, anche se la Corte d’Appello di Torino ha sottolineato, per la prima volta in assoluto, che i riders dovrebbero essere considerati un tertium genus tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi e che a loro dovrebbe applicarsi l’articolo 2 del D.Lvo n. 81/2015, che disciplina una tipologia lavorativa particolare, appunto un tertium genus, che, pur non avendo natura subordinata, dà titolo a molte delle tutele proprie del lavoro subordinato. Più recentemente a Firenze è stato raggiunto un accordo, in questo caso con l’assistenza di Cgil Cisl e Uil, tra la ditta La Consegna s.r.l., di recente costituzione, e i suoi attuali dipendenti (che dovrebbero passare a breve da 20 a 200), accordo in base al quale i riders dovrebbero essere assunti con contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e con le tutele proprie del contratto collettivo della categoria merci-logistica-spedizioni, sia pure integrato con specifici adattamenti di flessibilità. Per i sindacati si tratta del “primo contratto regolare a livello nazionale per i riders delle piattaforme informatiche”, contratto da estendere a loro avviso a tutte le realtà lavorative similari.

Per ciò che concerne da ultimo l’intervento del legislatore, va ricordato in particolare che circa un anno fa Di Maio, Ministro del Lavoro appena insediato, costituì un apposito “tavolo di lavoro” finalizzato alla tutela e alla disciplina del lavoro dei riders, tavolo che però, dopo una serie anche eccessiva di incontri spesso inutili, si è risolto in un nulla di fatto, al punto che lo stesso Di Maio ha recentemente comunicato di aver predisposto uno specifico articolato, da inserire a suo avviso nel d.d.l. sulla retribuzione minima legale, in base al quale i riders, e i tanti lavoratori assimilabili, devono considerarsi lavoratori dipendenti e devono quindi avere titolo a fruire di tutte, o quasi, le specifiche tutele economiche e previdenziali proprie del lavoro subordinato. Disposizioni che, se dovessero effettivamente entrare in vigore, finirebbero, ad avviso delle principali aziende interessate, con il bloccare l’intero settore a causa sia dei maggiori costi, diretti e indiretti, sia del venir meno di quella flessibilità lavorativa che è la base e la principale caratteristica di queste lavorazioni.

Come si vede – e a differenza di ciò che avviene in altre nazioni europee, a cominciare da Francia e Germania, in cui l’ipotesi di regolamentazione legislativa sembra orientata nel ribadire formalmente la natura autonoma e non subordinata dei riders, in linea con le posizioni assunte dalla magistratura – in Italia siamo ancora in pieno caos normativo, a fronte della necessità assoluta di garantire, per legge o per contrattazione collettiva valida erga omnes, un minimo di tutele economiche e previdenziali a tutti coloro che svolgono questi lavori. È da sottolineare da ultimo che il “destino giuridico” dei riders appare strettamente condizionato da quello che sarà l’esito delle prossime elezioni (amministrative, va ricordato, e non solo europee) e che la soluzione di questi problemi, comunque vadano le votazioni, difficilmente potrà avvenire a breve, a causa anche dell’andamento della nostra economia le cui difficoltà non potranno non essere prese in attenta considerazione in sede di valutazione delle conseguenze che potrebbero derivare da una regolamentazione troppo “ingessata e pesante” per tutte le parti sociali interessate.

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