Cina, Germania, Powell e Draghi: con il Pil al 3% Trump si gioca la rielezione
Crescita sopra il 3% annuo, come promesso nella precedente campagna elettorale, per far aumentare salari e posti di lavoro: ecco perché The Donald attacca tutti
La corsa alle presidenziali 2020 è ormai iniziata e Donald Trump scalda i motori cercando la riconferma. Per riuscirci il presidente in carica deve dimostrare che la sua amministrazione ha prolungato al vita al ciclo economico espansivo più duraturo della storia, aumentando ulteriormente il numero di occupati e la ricchezza del paese, ma che è anche riuscita a mettere al loro posto avversari e alleati riottosi che in qualche modo hanno in questi anni minacciato la supremazia a stelle e strisce.
Per questo da mesi la politica estera americana, che per un mercantilista come Trump significa soprattutto politica commerciale, ha assunto atteggiamenti sempre più aggressivi da un lato, con continue minacce alla Cina di imporre dazi sulle importazioni cinesi, salvo proporre di seppellire l’ascia di guerra se Pechino accetterà e rispetterà le “regole del gioco” in tema di tutela del diritto d’autore e riequilibrio dei saldi commerciali.
Un Trump che per difendere la “pace americana” è pronto alla guerra, ma anche all’armistizio immediato, come capitato col Messico, minacciato di dazi e dopo pochi giorni “graziato” a seguito del rinnovato impegno del paese a stringere i controlli sui flussi migratori (altro punto della campagna elettorale di Trump già nel 2016 e prevedibilmente del prossimo anno).
Sempre per questo Trump ha più volte minacciato Jerome Powell, che lui stesso ha nominato presidente della Federal Reserve, di trovare il modo di rimuoverlo o quanto meno controbilanciarne il potere nominando nuovi membri del board più “vicini” alle tesi della Casa Bianca se la banca centrale americana non ammorbidirà la sua politica monetaria. Politica che, notano da mesi gli analisti, di fatto si è già invertita con lo stop a ogni ulteriore rialzo dei tassi e la possibilità che già stasera o al più tardi a fine luglio venga annunciato un primo taglio dei Fed Funds, attualmente al 2,5% (ma sul mercato i tassi effettivi sono già calati dal 2,45% di un mese fa al 2,36%).
Sul perché le banche centrali, non solo la Fed, abbiano invertito la rotta pesano in realtà i rischi di un deragliamento della crescita mondiale e i contraccolpi che potrebbe riceverne anche l’economia americana causati da un possibile inasprimento delle tensioni commerciali tra gli Usa e il resto del mondo, ma questo Trump e i suoi emuli tendono a non comunicarlo ai propri potenziali elettori. Semmai, come ha fatto ieri, Trump preferisce “bacchettare” chi ha l’ardore di proporre quello che Trump vorrebbe fosse la Federal Reserve a fare, come Mario Draghi.
Ieri il numero uno della Banca centrale europea ha spiegato che Eurotower utilizzerà qualsiasi misura necessaria a evitare un nuovo deterioramento dello scenario macroeconomico quale in particolare tagli dei tassi e ha lasciato intravedere la ripresa di un quantitative easing che ha “ancora un considerevole spazio a disposizione” (con buona pace della Germania che nel 2018 ne ottenne la chiusura). E dopo poco da “the Donald” è arrivata una bacchettata: “Mario Draghi ha appena annunciato che potrebbero arrivare ulteriori stimoli, il che ha fatto immediatamente calare il cambio dell’euro rispetto al dollaro, rendendo ingiustamente più facile per loro competere contro gli Usa”, ha tuonato su Twitter.
“Sono anni che la fanno franca con queste cose, insieme alla Cina e ad altri” ha aggiunto Trump, mettendo di fatto la Bce e l’Europa tutta (Germania in testa) nella lista dei “cattivi” contro cui battersi in difesa della crescita americana. Crescita che Trump voleva fosse sopra il 3% l’anno e per questo ha varato una riforma fiscale che ha effettivamente dato un forte sostegno ma non è riuscita, sia pure per un soffio, a far centrare l’obiettivo. Nel 2018 il Pil Usa è cresciuto del 2,9%, dopo il +2,2% del 2017 mentre per quest’anno le attese sono per un +2,3% in parte proprio per il progressivo esaurirsi della spinta fiscale. Numeri eccellenti ma sotto l’obiettivo. Trump non è però tipo da badare ai decimali di punto, anche perché la lista dei “colpevoli” da additare è lunga.
(Segue...)
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