Cina, Germania, Powell e Draghi: con il Pil al 3% Trump si gioca la rielezione
Crescita sopra il 3% annuo, come promesso nella precedente campagna elettorale, per far aumentare salari e posti di lavoro: ecco perché The Donald attacca tutti
C’è la Germania e l’Europa in genere con le sue esportazioni, in particolare nel settore auto e nell’aerospazio. C’è l’India, rimossa il 5 giugno scorso dall’elenco dei paesi beneficiari del programma di ingresso preferenziale al mercato statunitense (Gsp), anche se Nuova Delhi non l’ha presa benissimo, imponendo dal 16 giugno un superdazio del 70% su 28 prodotti agricoli importati dagli Usa (tra cui le mandorle, di cui l’India è il principale cliente al mondo comprandone dagli Usa per 534 milioni all’anno).
C’è l’Iran, contro cui il presidente americano sembra a giorni alterni voler andare ad uno scontro anche militare o limitarsi a cercare di isolarlo economicamente così che Teheran, secondo paese al mondo per riserve di gas e quarto per riserve petrolifere, non veda crescere la sua influenza in Medio Oriente ai danni dell’Arabia Saudita. Potrebbe a breve tornare ad esserci la Russia, la cui produzione di gas naturale venduta all’Europa è da tempo nel mirino della Casa Bianca che vorrebbe allentare la “dipendenza” del vecchio continente a Mosca sostituendosi come fornitore privilegiato (anche se questo potrebbe finire col cementare l’alleanza tra Russia e Cina, che Trump non gradisce in alcun modo).
Se l’elenco dei “cattivi” è ampio, quello dei “buoni” è sinora molto scarno: tolti il Giappone di Shinzo Abe e la Gran Bretagna, soprattutto ora che Theresa May ha rassegnato le dimissioni e che la Brexit sembra acquisire maggiore concretezza (a vantaggio di un possibile accordo commerciale privilegiato tra usa e Regno Unito) non sono davvero molti i paesi su cui Trump può contare come sicuri acquirenti di merci e servizi americani.
Esportazioni che farebbero da volano all’economia a stelle e strisce e sosterrebbero un mercato del lavoro che continua sì a creare posti di lavoro (2,64 milioni di posti di lavoro creati nel 2018, disoccupazione al 3,6% a fine maggio, il minimo degli ultimi 50 anni), ma anche a registare incrementi delle paghe orarie più che modesti (+3,2% annuo a fine aprile). I tweet di Trump contro avversari e alleati riottosi degli Usa sembrano destinati a moltiplicarsi ancora nei mesi a venire, in un clima da campagna elettorale permanente. Basterà per centrare l’obiettivo trumpiano di “rendere l’America nuovamente grande”?
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