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Economia
Cina, Trump bullo fino al voto. Perchè Piazza Affari guarda alle elezioni Usa

Donald Trump sfrutta il momento positivo dell’economia (il Pil Usa è cresciuto nel secondo trimestre al tasso annualizzato del 4,1%), gonfia i muscoli nei confronti dei “nemici” veri o presunti dell’America in tutti i campi, Federal Reserve compresa, e tira la rimonta dei Repubblicani in vista delle elezioni di “mid term” del prossimo 6 novembre quando verranno eletti un terzo dei senatori e tutti i 435 deputati della Camera dei Rappresentanti di Washington.

Dall’altra parte del Pacifico Xi Jinping affronta uno scenario molto diverso, con un Pil cinese che nel terzo trimestre dell’anno è cresciuto sì del 6,5% annualizzato, ma in frenata rispetto ai tre mesi precedenti (+6,7%), iniziando apparentemente a risentire dei dazi americani. Dazi che Trump usa con disinvoltura per fare campagna elettorale e che hanno già portato i listini cinesi a perdere negli ultimi 12 mesi il 24,5%, contro un incremento del 9% del Dow Jones e del 7,5% del Nasdaq a Wall Street nello stesso periodo.

Proprio l’imminente test elettorale potrebbe tuttavia favorire, una volta superato, un clima di maggiore collaborazione tra le due superpotenze, come ha lasciato intendere il vice primo ministro cinese, Liu He, che è anche il consigliere economico di Xi Jinping, secondo cui “Cina e Stati Uniti sono ora in contatto reciproco”. Una conferma di contatti e incontri di cui era già circolata voce nelle ultime settimane e che potrebbe portare, il 29 novembre prossimo, alla vigilia del G20 di Buenos Aires, ad un incontro tra i presidenti dei due paesi per tornare a parlarsi “faccia a faccia” e cercare di risolvere la disputa senza che scoppi una vera e propria guerra commerciale.

Evitare una guerra commerciale Usa-Cina è del resto necessario ad entrambi i paesi: lo stesso Liu He ha esortato le banche cinesi a sostenere le aziende private perché “se si guarda solo a un momento particolare si vedono solo le difficoltà, ma se si considera la nostra storia le prospettive sono brillanti”, il che è un modo molto elegante di ammettere le difficoltà attuali. Negli Usa, d’altra parte, la crescita ha raggiunto probabilmente il suo zenit ed è destinata a rallentare, tanto più con una Federal Reserve che, complice un’inflazione già arrivata al 2,28% (lo stesso dato toccato in Germania, curiosamente), proseguirà a rialzare i tassi, sia pure guardando “dato per dato” per decidere quanto e come aumentare il costo del denaro.

S&P Global Ratings, da parte sua, si attende ancora un rialzo dei tassi entro fine anno e altri tre nel 2019: se fossero tutti deliberati e tutti da un quarto di punto, i tassi sui Fed Funds salirebbero dall’attuale forchetta del 2%-2,25% al 3%-3,25%, mentre i tassi effettivi, attualmente al 2,19%, dovrebbero portarsi a loro volta attorno al 3,10%-3,20%. Visto che già ora il tasso sui T-bond decennali è al 3,196% facile prevedere che da qui a un anno potrebbe oscillare attorno al 4%-4,2%, iniziando ad agire come freno sia nei confronti della crescita degli utili aziendali americani ma anche, indirettamente, sulla crescita economica mondiale. Utili che crescono ad un ritmo inferiore portano come a multipli di borsa inferiori e dunque rendono probabili sempre più frequenti e importanti correzioni per Wall Street, pur in presenza di rimbalzi e magari nuovi massimi storici degli indici.

Ma tassi più elevati significa anche maggiori oneri per rifinanziare il debito, che in questi anni è salito a 182 mila miliardi di dollari, nuovo record storico assoluto, di un 60% più elevato dei livelli raggiunti a fine 2007 prima dello scoppio della crisi economico-finanziari mondiale, come ha di recente ricordato il direttore del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde. Per molte aziende (e banche) “zombie”, tenute in vita dai tassi che le banche centrali di tutto il mondo hanno portato vicino o sotto zero, potrebbe essere la fine. Ma non solo: tassi più elevati hanno storicamente portato a flussi di capitale in uscita dai paesi emergenti (e dai paesi periferici dell’area euro, come l’Italia), uno scenario ricordato dagli esperti di S&P Global Ratings che sottolineano anche in un recente studio come non tutti i paesi emergenti siano uguali.

Quelli più a rischio sono al momento quelli europei, perché la Bce per almeno un altro anno non alzerà i tassi, ma poi dovrà iniziare a sua volta a normalizzare la propria politica monetaria (una normalizzazione che potrebbe essere accelerata dal ricambio ai vertici della Bce, visto che il mandato di Mario Draghi scade a fine ottobre 2019). Anche la Turchia appare a rischio, in quanto particolarmente vulnerabile a un ulteriore peggioramento delle condizioni del credito esterno, perché le esigenze di finanziamento esterno del paese restano significative dato l’alto livello di indebitamento esterno esistente tra banche e aziende. Insomma: se i tassi saliranno negli Stati Uniti e in Europa, Ankara rischia di precipitare definitivamente in una crisi che potrebbe rivelarsi molto delicata sia dal punto di vista economico sia geopolitico.

Sullo sfondo di tutto questo si sta sommando un improvviso e imprevisto deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita dopo l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Kashoggi, il mandante del quale è sospettato poter essere il principe ereditario Mohammed bin Salman. Il “gelo” tra Washington e Rhiad ha già portato alcune fonti arabe a ipotizzare una ulteriore salita del prezzo del petrolio anche oltre i 100 dollari al barile, ipotesi che suona come “preavviso” allo stesso Trump perché non calchi troppo la mano sul caso.

Insomma: da qui al 6 di novembre sarà difficile che lo scenario economico e politico mondiale possa cambiare significativamente, cosa che potrebbe favorire nuova volatilità sia sul mercato azionario sia su quello obbligazionario, in particolare quelli italiani data la bocciatura della manovra legata alla legge di bilancio 2019 da parte della Commissione Ue e di Moody’s (che fortunatamente non ha tuttavia ridotto a “junk” il rating sovrano italiano, cosa che avrebbe scatenato una vera crisi creditizia, mettendo una seria ipoteca sulla possibilità del paese di veder consolidata l’attuale ripresina).

Da fine novembre è possibile che i toni inizino a distendersi e che la ripresa dei mercati internazionali favorisca anche un rimbalzo di Piazza Affari e un recupero dei titoli di stato italiani, con una nuova riduzione sotto la soglia psicologica del 3% dello spread Btp-Bund. Se poi Trump e Xi troveranno un accordo volto a favorire scambi commerciali più “equi” e lo stesso dovesse poi avvenire tra Stati Uniti ed Ue, potremmo persino assistere ad un rally di fine anno di una certa ampiezza, di cui gli investitori meno avvezzi al rischio potrebbero approfittare per alleggerire le posizioni senza eccessivi danni.

Luca Spoldi

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