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Economia
Con la recessione addio a una banca su tre. Basilea 4, l'allarme di Mustier

Ad un decennio esatto dall’esaurirsi delle crisi economico-finanziaria globale, le banche di tutto il mondo “devono considerare urgentemente una serie di mosse organiche o non organicche radicali”, prima di affrontare una nuova recessione. Lo segnalano nella loro analisi annuale del settore gli analisti di Mc Kinsey, che partono da una constantazione: la crescita dei prestiti nel 2018 è stata di appena il 4%, “la più bassa degli ultimi cinque anni e ben 150 punti base al di sotto della crescita del Pil nominale”, proprio “mentre le curve dei rendimenti si appiattiscono” e, “sebbene le valutazioni fluttuino, la fiducia degli investitori nelle banche si sta nuovamente indebolendo”.

L’attuale ciclo economico, ammettono gli esperti, è diverso dai precedenti: il Rendimento globale del patrimonio netto tangibile (Rote) si è stabilizzato al 10,5%, nonostante un lieve aumento dei tassi nel 2018, ma ciò deriva da un calo del Rote delle banche dei paesi emergenti, dal 20,0% del 2013 al 14,1% del 2018, e di un leggero rafforzamento della produttività e contenimento dei costi del rischio da parte delle banche dei mercati sviluppati, il cui Rote è in media salito nello stesso quinquennio dal 6,8% all’8,9%.

Attenzione, però, perché esiste un abisso tra Stati Uniti ed Europa: grazie a tassi più alti, fisco più leggero e crescita più robusta le banche a stelle e strisce lo scorso anno hanno registrato in media un Rote del 16% contro il 6,5% medio degli istituti europei che debbono sottostare anche a requisiti di capitale più severi. Non solo: tra il 2022 e il 2027, con l’entrata in vigore delle norme di Basilea 4, i margini delle banche europee saranno ancora più sotto pressione.

Mc Kinsey stima che se tali norme fossero già in vigore alle banche europee servirebbero altri 130 miliardi di euro di capitali. Alla fine quasi il 60% degli istituti ad oggi vede ritorni inferiori al costo del capitale proprio. In questa situazione, “un rallentamento economico prolungato, con tassi di interesse bassi o addirittura negativi, potrebbe provocare ulteriori danni”. Ma cosa spiega la differenza tra il 40% delle banche mondiali in grado di creare valore e il 60% che lo distrugge, si sono chiesti gli uomini di Mc Kinsey?

Per farla breve, oltre che dall’ambito geografico dove operano, dipende dalle dimensioni, dalla differenziazione e dal modello di business. Secondo altri analisti come quelli di Goldman Sachs e Citigroup, a pagare lo scotto maggiore rischiano di essere istituti del vecchio continente del calibro di Ubs, Royal Bank of Scotland, Hsbc e Lloyds. I banchieri europei sembrano essere ben consapevoli del rischio: Jean-Pierre Mustier, numero uno di Unicredit e presidente dell’Ebf (la federazione bancaria europea) citando uno studio dell’Eba (l’authority europea di settore) ha sottolineato come Basilea 4 ridurrebbe del 27% il valore del Cet1 ratio delle otto maggiori banche del vecchio continente, mentre altri studi mostrano che l’impatto sulle banche americane sarà solo del 5%-6% e questo, ha avvertito Mustier, “renderà col tempo le banche europee ancora meno attraenti”.

Una possibile soluzione, che sembra piacere sia agli analisti di Mc Kinsey sia agli uomini delle principali banche d’affari (complice forse un inevitabile conflitto d’interessi), potrebbe essere quella di varare nuove fusioni e acquisizioni, specie in Italia dove le dimensioni degli istituti sono mediamente inferiori a quelle dei concorrenti europei (ai 3 maggiori gruppi fa capo il 28% del mercato e ai primi 5 il 32%, col 68% del mercato stesso parcellizzato rispetto al 46% della Svizzera, al 44% della Germania, al 34% della Francia o al 20% della Gran Bretagna) e dove le esigenze di capitale, per completare il derisking, restano elevate.

Ubi Banca, ad esempio, è vista da molti come un potenziale polo aggregante (una eventuale integrazione con Banco Bpm darebbe vita a un gruppo da circa 300 miliardi di euro di asset con sinergie di costo stimabili attorno al 10%), ma anche operazioni apparentemente su un binario morto come il matrimonio Deutsche Bank-Commerzbank in Germania potrebbero tornare d’attualità, così come la definitiva sistemazione delle partite apertesi su Mps e Banca Carige o la ventilata, ma finora sempre rimandata, operazione transnazionale che potrebbe essere tentata da Unicredit nell’arco del prossimo piano industriale, in arrivo il prossimo dicembre.

Di certo, il consueto ricorso al taglio dei costi non sembra una strategia in grado di funzionare più. Alcuni, come gli esperti di Citigroup, citano l’esempio del settore automobilistico che negli anni Novanta emerse dalla crisi accelerando il ricorso all’automazione. Altri come Mc Kinsey suggeriscono di “diversificare gli asset e gli investimenti in innovazione” e di puntare su fusioni e acquisizioni o tra soggetti che condividano buona parte della propria rete, così da poter avere sinergie di costo del 20%-30% almeno, o complementari che possano unire un marchio forte a una forte piattaforma tecnologica.

Pensando al mercato italiano, viene in mente Intesa Sanpaolo, impegnata da tempo nel rafforzare la sua presenza in Italia e in Europa nel wealth management e nel settore assicurativo coi poli di Eurizon e Intesa Sanpaolo Vita, ma anche capace di innovare il modello di fare banca con Banca 5 (l’ex Banca Itb), per la quale si punta ad uno sviluppo sempre più in ottica “open banking”, tenendo a mente che dai tabaccai convenzionati transitano ogni giorno 3,5-4 milioni di italiani.

Luca Spoldi

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