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Economia
Reddito di cittadinanza e lavori di pubblica utilità

di Piero Righetti

 

Il decreto legge n. 4 del 28 gennaio u.s. – e cioè il c.d. “decretone” che introduce nel nostro ordinamento giuridico il reddito di cittadinanza e consente di poter andare anticipatamente in pensione – contiene, soprattutto nei 13 articoli che disciplinano la concessione, la fruizione e l’utilizzo di questo nuovo sussidio, una serie di disposizioni di difficile (se non quasi impossibile) realizzazione, se non altro per l’eccessiva macchinosità e la difficoltà di rispettare i ristrettissimi tempi concessi ai vari enti (CAF, Poste, Comuni, Inps, ecc.) per dare corso  agli adempimenti di rispettiva competenza.

Basti pensare alla selezione e alla assunzione dei 14.000 navigator da parte dei Centri per l’impiego e dell’Anpal, selezione e assunzione che nessuno sa se e quando potranno concretamente avvenire, anche per la dichiarata contrarietà di molti Assessori regionali al lavoro che hanno minacciato di ricorrere alla Corte costituzionale.

Tutte cose queste che a volte appaiono affrontate con una sconcertante superficialità, ancor più grave se rapportata al fatto che quello della povertà, relativa o assoluta che sia, è per il nostro paese un dramma sempre più grave e che, realisticamente, è difficile da risolvere o almeno ridurre in modo consistente in tempi brevi.

Assolutamente sconcertante è quanto prevede l’art. 7, comma 5, lettera e del decreto legge n. 4, là dove stabilisce che “è disposta la decadenza dal reddito di cittadinanza quando uno dei componenti il nucleo familiare (cui appartiene la persona cui questo sussidio è stato concesso), non accetta almeno una di tre offerte congrue di un’occupazione”.

A parte il fatto che, per poter essere considerata “congrua”, questa offerta di lavoro deve essere “coerente con le relative esperienze e le competenze maturate” dalla persona che la dovrebbe accettare e che la relativa retribuzione deve essere “superiore di almeno il 20 % rispetto all’indennità (compreso anche lo stesso Rdc mi chiedo?) percepita anche nell’ultimo mese precedente(!); mi resta davvero difficile pensare come, in un periodo di grave crisi economica e di recessione qual’è quello che sta attraversando l’Italia, sia realistico (e serio) ipotizzare che navigator e centri per l’impiego siano in grado di individuare e proporre concretamente alle persone sussidiate centinaia di migliaia di posti di lavoro “congrui” e duraturi nel tempo.

Ricordo a questo proposito che l’obbligo, per i disoccupati che fruiscono di un qualsiasi sussidio o indennità di disoccupazione, di accettare, a pena di decadenza, l’offerta di lavoro è stato previsto sin dalla legge n. 264 del 29 aprile 1949 (firmata addirittura da Einaudi, De Gasperi, Fanfani e Segni), obbligo e conseguente decadenza dall’indennità che, di fatto, non si sono mai concretamente verificati per la difficoltà, tra l’altro, proprio di trovare validi posti di lavoro.

Un obbligo, di accettare a pena di decadenza il posto di lavoro offerto, che una successiva legge ha disposto di far scattare non più dal 1° rifiuto ma soltanto dal 2°. E, grazie forse anche a questa facilitazione, la perdita del diritto a fruire di un’indennità o di un sussidio di disoccupazione non è mai avvenuta, se non in casi rarissimi. E questo sia per i tanti certificati fasulli presentati dagli interessati, sia per la cronica inefficienza di quasi tutti i centri per l’impiego, un tempo chiamati Uffici di collocamento.

Fin qui alcune delle cose che non vanno nelle disposizioni ad oggi in vigore del Rdc.

Ma, a parte la volontà di contrastare la povertà e l’emarginazione sociale, scopi questi pienamente da condividere e che sono alla base del Rdc, ci sono nei 13 articoli di cui stiamo parlando delle disposizioni che, con alcune modifiche migliorative, potrebbero a mio avviso introdurre nel nostro paese degli interventi davvero concreti e socialmente utili.

Mi riferisco in particolare a quanto prevede l’art. 4, comma 15 del decreto n. 4 che dispone che “in coerenza con il profilo professionale del beneficiario (del Rdc), con le competenze acquisite nonché in base ai suoi interessi e alle sue propensioni …il beneficiario è tenuto ad offrire …la propria disponibilità per la partecipazione a progetti comunali utili alla collettività in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni da svolgere presso il comune di residenza per un numero di ore non superiore a otto ore settimanali”.

Ecco, questa è una disposizione che, se opportunamente modificata ed utilizzata, potrebbe rivelarsi di seria e concreta utilità, sia per le comunità locali, sia grandi, sia piccole, sia  per le stesse persone, titolari del Rdc, chiamate a svolgere questo tipo di attività.

Di lavori di pubblica utilità affidati a persone disoccupate, indennizzate e/o da indennizzare, se ne è parlato sia subito dopo la prima guerra mondiale sia dopo la seconda, in periodi cioè in cui i posti di lavoro disponibili erano davvero pochi e la povertà tanta. Ma anche la voglia, vera di lavorare.

Di lavori di pubblica utilità, poi chiamati lavori socialmente utili, si è parlato molto più concretamente, in tutte le parti d’Italia, dagli anni ‘90 in poi e vi sono state impegnate, per un minimo di 20 ore settimanali, fino a 300.000 persone, con risultati – lo posso affermare per diretta e ventennale esperienza – veramente utili sia per tanti diretti interessati (moltissimi giovani ancora senza lavoro, ma anche moltissimi over 55/60 anni licenziati e senza diritto alla pensione), sia per tanti Comuni, piccoli e medi, che per motivi di bilancio non potevano assumere il personale di cui avrebbero avuto bisogno e che, utilizzando a costo zero queste persone a carico essenzialmente del Bilancio Pubblico, hanno così potuto far fronte, con efficaci risultati, a lavori stradali, di amministrazione, di servizi scolastici e di mensa e di aiuto e di assistenza a persone disabili.

Ripeto, questi lavori si sono rivelati davvero socialmente utili, nonostante molti episodi di cattiva gestione e di sfruttamento della situazione. Per ciò che riguarda i diretti interessati, ricordo che tantissimi giovani, proprio con l’indennità percepita per 20 ore settimanali di lavoro, hanno potuto chi completare gli studi, chi avviare un’attività anche autonoma e tanti over 55/60 anni si sono sentiti nuovamente inseriti in un’attività lavorativa, svolgendo la quale hanno potuto maturare anche il diritto alla pensione. Ripeto, gli oneri – a parte quelli che alcuni Comuni si sono volontariamente accollati, erano tutti a carico dello Stato e in particolare del Fondo per l’occupazione del Ministero del Lavoro.

Un avvio di lavori socialmente utili 2, su scala nazionale, con le opportune correzioni dettate dall’esperienza dei lavori socialmente utili 1, potrebbe davvero rivelarsi di grande utilità, specie se collegata, ad es., con i tanti servizi di volontariato e di protezione sociale finora svolti gratuitamente.

Ricordo che tutti coloro che svolgevano i lavori socialmente utili – la cui gestione era affidata all’Inps e a Italia Lavoro (che è l’attuale Anpal Servizi) – erano assicurati obbligatoriamente contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (Inail) e per la responsabilità civile, mentre il periodo di lavoro Lsu svolto era riconosciuto utile per maturare il diritto al pensionamento.

La prima mossa però dovrà necessariamente essere quella di elevare l’impegno a svolgere lavori di pubblica utilità dalle 8 ore settimanali stabilite dal decretone ad almeno 20 (36 ore, come previsto da un emendamento che verrà presentato oggi 18 febbraio in Commissione Lavoro del Senato, potrebbero forse risultare anche eccessive). Per ciò che concerne la normativa con cui disciplinare questi nuovi lavori di pubblica utilità faccio presente che già esiste, che è già quasi completa e che è contenuta nell’art. 26 del decreto legislativo n. 150/2015, la cui attuazione è di competenza dell’Anpal.

Sottolineo nuovamente: l’utilizzo di coloro che hanno diritto al reddito di cittadinanza in lavori di pubblica utilità con oneri già completamente stanziati dalla Finanziaria 2019 – se ben gestito ed attuato – potrebbe essere davvero, senza eccessive difficoltà e senza nemmeno ricorrere ai navigator, un’importante conseguenza della introduzione del reddito di cittadinanza, utile sia alle tante persone senza lavoro e spesso con scarsa professionalità, sia ai tanti Comuni piccoli, medi ma anche grandi, che per mancanza di fondi propri non possono far fronte a tante indifferibili esigenze, a cominciare, ad es., dalla raccolta dei rifiuti, dal controllo degli alberi a rischio caduta e dalle buche di Roma.

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