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Economia
Dazi, l'Italia sbatte sul muro col Messico. I campioni penalizzati da Trump

Il ciclone Trump, con i suoi dazi anti-immigrazione nei confronti del Messico, non si abbatte solo i nomi illustri dell’automotive italiano. Ovvero Fca, Brembo e Pirelli che subiranno gli effetti delle barriere commerciali alzate (la seconda tornata dopo i dazi applicati sul settore dell’acciaio nel giugno dello scorso anno) dalla Casa Bianca nei confronti dei beni prodotti in Messico. Ma anche sui blasonati brand di Corporate Italia, alcuni quotati a Piazza Affari. 



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Si va da Ferragamo ad Enel e da Essilor-Luxottica ad Eni, fino a Prada e a Ferrero e Mediobanca. Ma la lista è lunga perché in terra messicana ci sono anche le fabbriche di Buzzi Unicem, Stm, Prysmian e Safilo. E poi gli stabilimenti di Campari, Benetton, Barilla, Calzedonia, Techint, Prysmian, Zegna, Menarini e Maire Tecnimont.

Tutte aziende che, attraverso delle controllate oppure attraverso l’apertura di una branch, hanno approfittato dei vantaggi commerciali del Nafta, la più grande area di libero scambio del mondo (accordi rinegoziati dalla Casa Bianca con Messico e Canada a ottobre scorso) che coinvolge 480 milioni di persone, per piazzare i propri avamposti produttivi in loco, tagliare i costi di trasporto e servire così il ricco mercato statunitense. Approfittando allo stesso tempo del free trade. 



I motivi? Un mix di fattori ha spinto le imprese tricolori a prendere la via del Messico. In primis, la possibilità di penetrare un mercato in crescita da 120 milioni di abitanti, dove la popolazione economicamente attiva e la classe media sono in costante aumento. Poi la logistica: le aziende possono impiegare solo tre giorni (invece che i 24 dall’Italia) per trasportare i prodotti dall’hub latino-americano verso gli States e il Canada. Poi, hanno giocato e stanno giocando un ruolo fondamentale l’apertura del Paese che può contare su ben 45 accordi commerciali, una manodopera qualificata e a basso costo (4 dollari l’ora) e la presenza di incentivi fiscali (per le maquiladoras che trasformano beni intermedi da esportare) e burocratici offerti dai diversi Stati messicani.

L’ultimo investimento italiano messo a segno in Messico è stato quello di Brembo a inizio 2017 nell’area metropolitana di Monterrey, dove il colosso controllato dalla famiglia Bombassei ha inaugurato il nuovo stabilimento di pinze-freni in alluminio. Portando a tre il numero dei propri siti produttivi nel Paese latino-americano. A luglio 2016, era stata invece la volta di Pirelli a Silao: altri 200 milioni di investimenti per 400 nuovi posti di lavoro dedicati alla produzione di pneumatici nel segmento Premium nello stabilimento situato nel Guanajuato, aperto nel 2012 in uno dei cluster dell’automotive più importanti del Messico.

Ma, secondo quanto spiega l'Economia del Corriere, sono più di1.600 le imprese italiane presenti in Messico, economia che lo scorso anno è cresciuta dell’1,9%, ma che in passato ha marciato a tassi medi del 3%. Performance che forse ora saranno più difficili da ripetere per i contrasti con Washington sui flussi migratori in uscita. Di questa presenza imprenditoriale tricolore, che include anche i piccoli investimenti nell’hotellerie e nella ristorazione, 350 aziende operano in maniera più strutturata, inclusa anche la sola presenza commerciale.

Quasi 115, di medie e grandi dimensioni, sono presenti invece con uno o più stabilimenti produttivi che si concentrano essenzialmente in tre aree geografiche corrispondenti più o meno al centro della Repubblica federale messicana: sono Città del Messico e lo Stato del Messico, il Bajio (regione a forte vocazione manifatturiera che comprende il Jalisco e il Queretaro, un’area industriale a 200 Km a nord della capitale) e, infine, lo Stato del Nuevo Leòn che, oltre al gruppo di Bombassei, ospita anche gli stabilimenti di Comau e Techint.

Dal punto di vista industriale, invece, i settori maggiormente rappresentati sono quello metalmeccanico, dei materiali per l’edilizia, degli articoli in gomma e delle materie plastiche, dei prodotti chimici e delle fibre sintetiche. Ora, esportare negli Usa sarà più difficile.

twitter11@andreadeugeni

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