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Economia
Esaurita la spinta. Perché il Rottamatore è unfit per guidare il Paese

di Luca Spoldi
Andrea Deugeni

Caso Lupi, caso Guidi e il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi che dice di non conoscere il compagno dell'ex collega di Governo titolare dello Sviluppo Economico (?!?!). Dov'è finita la rottamazione? Niente di nuovo sotto il sole...

Sono passati 15 anni da quando The Economist “sparò” in copertina: “Why Berlusconi is unfit to lead Italy” (Perché Berlusconi è inadatto a guidare l’Italia), poco più di tre anni da quando il Financial Times concesse il bis, con un articolo di Wolfgang Münchau intitolato “Monti is not the right man to lead Italy” (Non è Monti l’uomo giusto per guidare l’Italia) e siccome non c’è due senza tre, più di un operatore a Piazza Affari (e non solo) sta già contando i giorni che trascorreranno prima di leggere un titolo simile, riferito all’attuale premier italiano, Matteo Renzi.

Al di là dei giudizi personali su Renzi e sui suoi predecessori, l’opera di un premier va giudicata sui fatti e i fatti, almeno in campo economico, non stanno andando come l’ex sindaco di Firenze, nominato presidente del consiglio dei ministri il 22 febbraio 2014, aveva auspicato potessero andare. Alla sua nomina Renzi aveva trovato un’Italia con un Pil (dati Istat fine 2013) di circa 1.604 miliardi di euro, in calo dai 1.637 miliardi di euro di fine 2011, allorché l’ultimo governo Berlusconi fu “abbattuto” dai mercati e sostituito dal governo Monti (cui seguì il governo Letta).

A fine 2015 il Pil italiano era risalito a poco più di 1.636 miliardi, tornando dunque sui livelli del 2011. Un inizio di ripresa che basta a evitare un giudizio di “unfit” a Renzi? Non proprio: se si guarda alla composizione del Pil si scopre che nel 2011 esso era dovuto per 1.328 miliardi a consumi (l’81% del Pil) e per quasi 322 miliardi a investimenti (il 19%); nel 2013 le due voci erano calate a 1296 miliardi (meno dell’80,8% del Pil) e a 277 miliardi circa (circa il 17,3%), mentre a fine 2015 i consumi erano risalite rispettivamente a 1.309 miliardi (80% del Pil) e a 270 miliardi (il 16,5%). Come dire che la ripresina non solo non ha superato i livelli 2011, ma ha visto un ulteriore calo degli investimenti che non fa ben sperare per il futuro.

C'è di più. Senza considerare che il tasso di crescita trimestrale del Pil  è andato via via decrescendo nell'anno della golden age del quantitative easing di Mario Draghi (euro in discesa sul dollaro) e del petrolio a buon mercato (sconfessando revisioni al rialzo e toni trionfalistici rivelatisi a fine 2015 quantomai inopportuni), il nuovo anno sembra conservare lo stesso andamento del Pil del secondo semestre. E, oltre agli investimenti, lo stop di febbraio del mercato del lavoro indica che nulla di strutturale è stato innescato dall'attuale timoniere della politica economica. Il mercato del lavoro, poi, è l'ultimo passaggio della ripresa che parte dai mercati finanziari, passa poi in un secondo momento per l'economia reale e finisce per sortire i propri effetti sull'occupazione. Se questa, come dimostrano i dati odierni, è cresciuta solo per effetto degli sgravi vuol dire che un trend di crescita strutturale del lavoro dovuto al Pil è assente e l'economia italiana rimane debole e sempre esposta agli shock esogeni.

economist
La famosa copertina dell'Economist su Silvio Berlusconi prima delle elezioni del 2001

A sorreggere l’economia italiana fino al 2015, infatti, sono state, grazie al cambio euro-dollaro favorevole, soprattutto le esportazioni, cresciute nel 2014 del 2,9% e nel 2015 del 3,9% (ma anche in questo caso siamo lontani dai ritmi che ancora erano in grado di tenere nel 2011, +9,4%). Buona parte del merito della ripresa più che alle azioni intraprese da Matteo Renzi e dal suo governo sono dunque da imputare alla tenuta della crescita economica mondiale. Se il governo non sembra aver avuto le promesse sul piano delle riforme strutturali, quelle poche varate hanno seguito un ordine di priorità non ottimale: si sarebbe dovuto trovare il modo di incrementare la produttività e ridurre la tassazione sulle imprese, così da invogliare nuovi investimenti, si è scelto di sostenere i consumi e provare a rendere più conveniente assumere. Ma il mercato del lavoro continua a languire e nonostante il “Jobs Act” il tasso di disoccupazione di fine 2011 (8,4%) resta distante da quello di fine 2015 (11,5%), per quanto si noti un primo recupero rispetto alla situazione di crisi più acuta del mercato del lavoro toccata nel 2013 (12,1%) e nel 2014 (12,7%).

Un giudizio almeno parzialmente positivo va invece per quanto riguarda la gestione dei debiti della pubblica amministrazione: lo stock di fatture non saldate era arrivato a fine 2011 a 91 miliardi di euro, Renzi si era trovato a dover “saldare” un arretrato di 75 miliardi al momento del suo insediamento, l’ha ridotto a 70 miliardi a fine 2014. Tuttavia a fine settembre scorso restavano da pagare ancora 61 miliardi di euro di fatture, con un tempo di pagamento medio a 144 giorni contro i 38 giorni medi della Ue. Tutti i paesi nostri concorrenti saldano prima i propri debiti con le imprese: la Francia impiega 62 giorni, la Gran Bretagna 24 giorni, la Germania 19 giorni.

Quanto poi ad altri aspetti “strutturali”, sui conti pubblici continua a gravare un debito crescente salito a 2.169 miliardi a fine 2015, contro i 2.067,5 miliardi di fine 2013 e i meno di 1.898 miliardi di fine 2011, il che conferma che la “ripresina” di questo biennio è stata finanziata essenzialmente a debito, ovvero che nonostante tassi di interesse in calo sul debito questi stessi restano superiori alla crescita nominale del Pil. Per tutti gli altri aspetti che possono rendere competitivo un paese basti l’annuale classifica della Banca Mondiale (“Doing Business”): l’ultima edizione qualche mese fa mostrava l’Italia al 45esimo posto, con un recupero di 20 posizioni rispetto al 65esimo posto occupato al momento in cui Renzi si insediava e di oltre 40 posizioni rispetto all’87esima posizione occupata a fine 2011. Insomma: chi è venuto prima di Renzi ha meritato il giudizio di “unfit”, ma quanto ha fatto finora il premier toscano non basta certo per metterlo al riparo da un giudizio analogo. A maggior ragione se si considera il mito della rottamazione agitato da Renzi per distinguersi nelle performance di politica economica dai politici di una Prima e di una Seconda Repubblica in cui il Pil e l'economia italiana sono stati caratterizzati da un lento declino e nell'ultimo decennio da una crescita asfittica.

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con renzi l'economia italiana non è cambiatapadoandebitopil





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