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Economia
I dazi di Trump preoccupano alcune tra le principali famiglia del capitalismo


Chissà se Trump rinuncerà alle sue cravatte Marinella: di certo per il settore moda-abbigliamento italiano, che da anni ha visto marchi come Kiton (Ciro Paone), Dolce&Gabbana (Stefano Dolce e Domenico Gabbana) o Isaia (dell'omonima famiglia di imprenditori napoletani) affiancare nomi storici come Giorgio Armani o Luxottica (Leonardo Del Vecchio), il rischio esiste, così come esiste per il settore calzaturiero (che ancora nel 2015 ha registrato esportazioni negli Usa per oltre 1,4 miliardi di dollari) che vede in Salvatore Ferragamo il suo marchio d'eccellenza.

Nel campo enogastronomico, finora altro cavallo di battaglia del "made in Italy" negli States, a rischiare sono da Oscar Farinetti (la sua Eataly è già presente a New York, Chicago e Boston), ma anche la famiglia Lunelli (Cantine Ferrari), che solo lo scorso anno a fronte di risultati record segnalava di voler ancora crescere nel Nord America, secondo Matteo Lunelli "l'area con i maggiori spazi di crescita" a livello internazionale, "perché gli Stati Uniti sono il primo mercato di importazione di vino e la cultura del vino ha raggiunto un buon livello di maturità, non solo nelle grandi città".

Forse non tutti sanno, poi, che uno dei settori di punta dell'export italiano è, negli Usa e non solo, la farmaceutica: così famiglie come i Menarini, i Chiesi, i Bracco, gli Angelini, ma anche i Dompé, i Marcucci (proprietari del gruppo Kedrion), i Del Bono (Mediolanum Farmaceutici) o i De Santis (Italfarmaco) non possono certo essere del tutto sereni, a differenza dei Recordati che avendo appena ceduto il controllo (51,8%) del gruppo al fondo britannico di private equity Cvc Capital Partners possono osservare l'evolversi della situazione con maggiore distacco.

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