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Economia
Ilva, Sud ostaggio delle crisi industriali.Carta Transizione4.0 per Patuanelli

Nonostante la retorica dei governi di turno, la crisi economica italiana non passa e lo testimonia la crescita dei tavoli di crisi aperti al Ministero per lo sviluppo economico (Mise), passati da 138 a inizio anno a 158 oggi con 250 mila posti di lavoro a rischio, il protrarsi di crisi strutturali come quella di Alitalia (che peraltro non è tra i tavoli di crisi curati dal Mise) e l’esplodere di “bombe” come quelle di ArcelorMittal, pronta a gettare la spugna per quanto riguarda il rilancio dell’ex Ilva di Taranto (ma con impianti anche a Genova e Novi Ligure).

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In attesa che qualche politico ammetta che il nostro Paese da anni sta sbagliando ricetta e che ignorare il calo di produttività e il costante aumento della pressione fiscale e della burocrazia sta rapidamente “messicanizzando” ciò che resta di un tessuto produttivo nato e cresciuto col fu-miracolo economico ormai quasi mezzo secolo fa, non si può non notare come questo stato di cose vada a incancrenire l’altrettanto strutturale crisi del Mezzogiorno, per molti versi speculare a quella più generale del Paese nei confronti dell’Europa.

Solo per ricordare i casi più eclatanti, per non andarsene da Taranto ArcelorMittal chiede 5 mila esuberi (su 14 mila dipendenti) per l’ex Ilva, dopo che già 201 dipendenti di Castiglia, un’azienda dell’indotto, sono stati licenziati. Whirpool a Napoli (420 dipendenti oltre ad altri 500 nell’indotto) ha accettato di sospendere le cessione di ramo d’azienda, ma solo fino al marzo 2020 (quando scadranno gli ammortizzatori sociali), in attesa di valutare un eventuale accordo che dovrebbe prevedere 20 milioni di contributi da parte della Regione Campania.

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Nel caso di Blutec, società subentrata a Fiat Chrysler Automobiles nella gestione dello stabilimento di Termini Imerese, sono 700 i lavoratori in cassa integrazione dal 31 luglio scorso e fino a fine anno. Su cosa succederà dopo non c’è tuttavia certezza alcuna, specie per i 300 lavoratori dell’indotto coinvolti nella reindustrializzazione del sito ma già licenziati. Sempre in Sicilia, a Palermo, si attende l’evolversi della crisi dei call center Almaviva (la stessa che già aveva minacciato la chiusura della sede di Napoli), dove 1.600 dipendenti restano a rischio nonostante l’annuncio dato a fine settembre del ritiro della procedura di licenziamento.

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In Sardegna Sider Alloys, gruppo svizzero subentrato nel 2018 ad Alcoa nella gestione dell’impianto di Portovesne (500 dipendenti più altri 500 nell’indotto prima della crisi), nonostante 135 milioni di euro di investimenti già fatti (dei quali 8 milioni a fondo perduto, 84 milioni a tasso agevolato, 20 milioni stanziati dall’Alcoa, 23 milioni dalla stessa Sider Alloys) e lavori di revamping completati ancora aspetta la firma del contratto per la fornitura di energia e nel frattempo ha rimesso in cassa integrazione, fino a fine anno, i 140 operai riassunti finora.

Anche per i “vicini di casa” di Eurallumina (che fa capo al gruppo russo Rusal), il cui stabilimento è fermo ormai dal marzo 2009, il riavvio dell’impianto, da cui dipende il ritorno al lavoro di 1.450 tra dipendenti diretti (in cassa integrazione fino a fine anno), indiretti e dell’indotto, resta in bilico in attesa della valutazione d’impatto ambientale, nonostante un progetto propedeutico che tra le altre cose prevede investimenti per 167 milioni (7 milioni a fondo perduto, 60 milioni a tasso agevolato e 100 milioni a carico di Rusal).

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L’elenco potrebbe proseguire, ma sullo sfondo emerge con chiarezza un filo rosso che lega tutte le crisi: come l’Italia ha visto ampliarsi il gap competitivo con la Germania fino al 2008, per poi recuperarla in parte dal 2009 come “sottoprodotto” dell’austerità fiscale che ha portato ad aumentare le retribuzioni italiane in media solo di un 10% cumulato contro il +30% segnato in Germania, così il gap tra Nord e Sud Italia in termini di produttività ( nel 2018 un residente in Lombardia ha “prodotto” in media 38 mila euro, in Campania appena 18 mila) dovrà chiudersi per consentire al Mezzogiorno di ripartire.

E siccome la differenza è legata in particolare al tasso di occupazione (a fine 2017 nel Nord era impiegato in media il 67% delle persone in età da lavoro, al Sud il 44%), il cui divario ha già portato tra il 2002 e il 2017 oltre2 milioni di italiani a trasferirsi dal Sud al Nord o all’estero, occorrerà o differenziare le retribuzioni su base regionale, in particolare nel settore pubblico (quello privato avendolo già accettato de facto) o sostenere l’innovazione tecnologica.

Quest’ultima sembra essere la strada scelta dal ministro Stefano Patuanelli, che ha convocato per il 13 novembre al Mise il tavolo Transizione 4.0 per avviare “un confronto permanente con tutti gli attori del settore industriale, a partire dalle Pmi e dalle associazioni di categoria” e individuare nuovi strumenti, o migliorare quelli già in essere, per accompagnare le imprese italiane “verso una transizione che premi la sostenibilità ambientale”.

Il fatto che già oggi manchino all’appello 3,5 miliardi di investimenti pubblici al Sud rispetto a quella che avrebbe dovuto essere la ripartizione concordata (un terzo al Nord, un terzo al Centro, un terzo al Sud) e che la forza politica in maggiore ascesa in Italia secondo tutti i sondaggi sia la Lega, per anni caratterizzata da una propaganda antimeridionale, non induce tuttavia a facili ottimismi.

Luca Spoldi

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